domenica 14 giugno 2015

RGD: Django Unchained

Io ho un problema personale con Spike Lee: non riesco ad apprezzare la sua cinematografia, il suo modo di fare cinema, il suo modo di vedere le cose. Ovviamente non ho mai avuto niente contro di lui a livello umano, tuttavia mi capita di trovarmi d'accordo con lui ben poche volte. E anche stasera mi sono trovato in contrasto con le sue opinioni. Mi riferisco all'enorme rumore causato dal regista afroamericano in merito alla pellicola "Django Unchained", settimo film di Tarantino in qualità di regista che stasera ho visto e sto per recensire, nella quale il buon Quentin avrebbe abusato della parola tabù "nigger" (negro, in italiano). Come lo stesso regista ha chiarito, il film è ambientato nell'epoca della schiavitù dei neri: impedire ai personaggi di pronunciare quella parola sarebbe stata una menzogna di carattere storico. La cosa che più mi fa sorridere è che Spike Lee, troppo preso a difendere le sue radici (a cui tutti ben sappiamo quanto sia attaccato), non si sia accorto di come invece il punto di maggior successo di "Django Unchained" sia proprio la ricostruzione storica. Ma andiamo con ordine. 
  


Tarantino, si sa, o si ama o si odia. Io lo amo, ma al tempo stesso sono esigente. Reduce da un incredibile "Bastardi senza gloria", Quentin si è posto l'asticella molto in alto da solo. "Django" affronta un altro tema storico, altra epoca, altro continente: la schiavitù dei neri nel sud degli Stati Uniti (un tema piuttosto in voga, vista la contemporanea uscita di "Lincoln" di Spielberg -Lincoln, quello vero, la schiavitù la abolì nel 1837-). Come sempre, Tarantino affronta però l'argomento solo per vie traverse, presentandoci il contesto attraverso la storia e le emozioni che riguardano i suoi personaggi, seppur senza rinunciare alla sua opinione (caro Spike Lee, appare fin troppo evidente che Quentin sia assolutamente contrario alla schiavitù che per decenni ha tormentato la tua stirpe, basterebbe dare un'occhiata all'impianto narrativo e alla costruzione di alcune sequenze e di alcuni personaggi per rendersene conto, magari lasciando un po' in secondo piano le singole parole usate nei dialoghi...).

La trama, come in ogni film tarantiniano, è molto semplice. "Django" si apre con una carovana di schiavi che percorrono un deserto roccioso, mentre i titoli di testa scorrono in carattere rosso fuoco con uno stile decisamente western. Dai titoli apprendo che la fotografia è del maestro Robert Richardson, e si vede: proprio di sfondo al suo nome c'è una delle inquadrature più belle di tutto il film, con un punto luce bianco dall'alto che illumina la carovana in semi-silhouette notturna. Magistrale. 
Appena terminano i titoli entra in scena Christoph Waltz (nuovo attore feticcio di Tarantino?) con il suo nuovo personaggio, il cacciatore di taglie ex-dentista tedesco King Schulz, guidando un carretto con un gigantesco dente a molla sul tettuccio. L'ironia a Tarantino non manca mai e il personaggio di Waltz ricalca quanto basta i canoni che tanto ci piacciono. Schulz libera Django dalle catene con una nonchalance e un'eccentricità che Waltz nemmeno interpretando Hans Landa (ruolo che gli valse Oscar e Orso d'Oro) era riuscito a far emergere.
Schulz ha bisogno di Django perché deve aiutarlo ad identificare le sue prossime vittime per incassare la taglia sulla loro testa e Django è l'unico che ricorda bene i loro volti. Da qui in poi il film è suddivisibile in tre atti ben marcati, ma altrettanto ben amalgamati fra di loro.
La prima parte (lunga, forse eccessivamente lunga) riguara la costruzione del rapporto fra Schulz e Django, una specie di legame maestro-allievo oltre che di amicizia al punto tale che Schulz si offre di aiutare Django a ritrovare e liberare sua moglie, Broomhilda, tenuta schiava nella piantagione del perfido Calvin Candy (come al solito la scelta dei nomi dei personaggi non è mai casuale da parte di Tarantino - qui ragiona per contrasto). 
Il secondo atto ha luogo proprio a Candyland, in cui a tenere banco è un gigantesco Leonardo DiCaprio, capace di sfoggiare una malvagità e una crudeltà senza confronti. Ho sempre reputato Leo il migliore degli attori della sua generazione attualmente in circolazione e anche in questo caso ha soddisfatto appieno le mie aspettative. Qui la fotografia di Richardson e la regia di Tarantino danno il meglio, con un'atmosfera calda e cupa, carica di contrasto (il bianco-nero dei vestiti quasi a metafora del bianco-nero delle carnagioni) e con alcune sequenze davvero forti, tipiche dello standard di Quentin (lo schiavo sbranato dai cani, il trattamento subito dalla povera Broomhilda, la lotta fra i mandinghi con tanto di occhi cavati), anche se la maggior parte della violenza avviene tutta fuori campo. 
Il terzo atto, infine, dà un senso al titolo, quando Schulz uccide Calvin Candy prima di essere a sua volta assassinato e Django, da solo, si ritrova in mezzo ad una sparatoria in cui diventa carnefice di decine di uomini armati, in una scena che ricorda molto la lotta fra la Sposa e gli 88 Folli in Kill Bill vol.1, con grande abbondanza di sangue e spruzzi di frattaglie e con le spade sostituite dalle rivoltelle. La vendetta di Django si completa (dopo una momentanea e solo apparente sconfitta a vero e proprio rischio dei testicoli!) con l'esplosione di Candyland e con la fuga insieme alla moglie Broomhilda verso la libertà. 



Di tutti gli attori che danno vita alla storia forse il meno convincente è proprio Jamie Foxx nei panni di Django, al quale dona con generosità il proprio corpo (mai visti tanti muscoli in un uomo solo!) ma meno la propria anima; più convincente nella prima parte del film, quando è un semplice e imbarazzato "allievo" di Schulz, che nelle altre due, in cui tende a Clint-Eastwood-eggiare un po' troppo, e il cambio da timido schiavo liberato a spietato carnefice senza paura è forse eccessivamente immediato. 
Decisamente interessante la prova di Christoph Waltz (che fino al momento in cui scrivo gli è valsa un Golden Globe e una nomination all'Oscar), il quale come già detto risulta più eccentrico e raffinato rispetto ad Hans Landa di "Bastardi", anche se sicuramente meno versatile. Forse il ruolo di "buono" (per quanto possa essere buono un mercenario) sembra limitarlo, ma fortunatamente la sceneggiatura gli riserva ottime battute (come quella del portafoglio durante la scena più drammatica di tutto il film) e grandi chance di dimostrare il proprio valore (la scena iniziale nella città di Daughtery è fenomenale). L'unico difetto è che forse tende a replicare un po' se stesso, soprattutto nella gestualità e nelle espressioni del viso. Ma nel complesso, è uno dei due perni della pellicola. 
L'altro è senza dubbio Leonardo DiCaprio, vero valore aggiunto, un cattivo formidabile, nonostante la giovane età (circa 40 anni) dimostra una maturità ormai invidiabile, frutto di una carriera accuratamente studiata e di un talento smisurato. Perfidia, crudeltà, eleganza, e un'incredibile follia mascherata per tutta la pellicola e tirata fuori soltanto nella scena della sala da pranzo, stupendo tutti. Si fa attendere (appare dopo circa un'ora di film) ma il suo arrivo vale l'attesa, e quando esce di scena il film cala inevitabilmente, mentre cresce di importanza il personaggio del vecchio servo nero Steven, incarnato da Samuel L. Jackson con eccezonale maestria nelle prime scene, quando si finge un vecchio un po' sordo dalla lingua lunga (memorabili battibecchi con DiCaprio), un po' meno convincente nel finale quando assume il ruolo di antagonista principale. 
Convincente la prova di Kerry Washington nei panni di Broomhilda; poche volte in scena, quasi sempre con le lacrime agli occhi, recita pochissime battute (forse una ventina in tutto, di cui almeno la metà in tedesco) ma compensa con la sua grazia. Buona la prova del cast di contorno, compresi i due camei del film, quello di Franco Nero nel ruolo di un altro proprietario terriero che assiste al combattimento fra mandinghi insieme a DiCaprio, e quello di Tarantino stesso, ingrassatissimo, nel ruolo di una guardia di un campo di lavori forzati. 



L'aspetto tecnico non delude mai: Tarantino ormai sfoggia la propria bravura nel gestire i temi storici e nel trattarli a livello visivo, mescolando il proprio inconfondibile stile ricco di citazioni e riferimenti (anche in "Django" quasi impossibile ricordarli tutti) con inquadrature di ampio respiro, grandi paesaggi e scenari ricostruiti (un film in costume è sempre impegnativo); la sua maestria nello scrivere i dialoghi e nel metterli in scena dà prova di genio anche in questo caso, esaltando le battute con inquadrature sempre diverse, con punti luce molto stretti (merito di Richardson alla fotografia) e tonalità sempre calde e molto sature. Elemento imprescindibile di Tarantino, anche in "Django", è la colonna sonora, con scelte azzeccatissime e ogni volta spiazzanti: l'abilità di Quentin nell'unire brani che arrivano perfino all'hip hop più moderno con scenari ottocenteschi è sbalorditiva. 
Qualche pecca arriva dal montaggio: ad una prima visione si contano almeno 15-20 errori di raccordo piuttosto evidenti (che, a differenza di Deathproof, non possono essere considerati voluti). Le scenografie sono potenti e precise, ricostruendo l'atmosfera storica in maniera perfetta e rendendo questo aspetto del film uno dei più riusciti, come già detto all'inizio. 
Alla base di tutto, l'ennesima ottima prova di Tarantino in fase di sceneggiatura: "Django" ti tiene incollato dalla prima all'ultima scena, con qualche caduta dal punto di vista del ritmo e dell'equilibrio fra le scene (forse troppo dialogo all'inizio e al centro, e l'azione concentrata in maniera esagerata nel finale), ma con alcune sequenze così cariche di ironia da far spanciare letteralmente dalle risate, arrivando ad essere completamente paradossali (il Ku Klux Klan che si lamenta della scomodità dei cappucci bianchi è forse il picco più alto della scrittura cinico-satirica di Quentin). 



Probabilmente "Django" resta inferiore a "Bastardi senza gloria" (a cui deve molto) e supera Kill Bill vol.2 grazie alla presenza di DiCaprio. In ogni caso, un film che fa riscoprire il piacere di andare al cinema per godersi una pellicola che vale il prezzo del biglietto. Qualunque spettatore può godersi "Django", grazie alla molteplicità di livelli e di registri tenuti da Tarantino; difficile che qualcuno esca dalla sala scontento; forse un po' deluso dal finale (abbastanza) scontato, ma comunque ripagato della propria scelta. Certamente non stiamo parlando di un capolavoro (come Bastardi, voto 9), ma di un "capolavoro mancato" secondo me sì. Non sfiorato, eh, intendiamoci, bensì proprio "mancato", qualche pecca di troppo qua e là, qualche esagerazione, qualche dettaglio meno curato del solito. In generale, però, molto al di sopra dello standard dei film a cui oggi siamo sottoposti, e Dio benedica Quentin per avermi dato di nuovo il piacere di vedere un film in cui contano le persone e non il computer (grafica digitale ed effetti visivi sono quasi completamente assenti).

Decisamente ottimo, con buona pace di Spike Lee.


Voto finale: 8

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