martedì 14 luglio 2015

RGD: Predestination

Come spesso sostengo, non bisognerebbe mai guardare i film soltanto perché il trailer ha smosso la curiosità. I trailer sono macchine mortali, sono fatti per attirare il pubblico, per dare un'idea del film che poi puntualmente viene smentita. Sono uno strumento utile e allo stesso tempo terribile per promuovere una pellicola. Pur essendone conscio, ci casco ancora, qualche volta, ed è per questo motivo che ho optato per Predestination, scritto e diretto dai fratelli Michael e Peter Spierig e tratto da un racconto breve di Robert Heinlein intitolato Tutti i miei fantasmi.
Quando il trailer non corrisponde a ciò che si vede nella pellicola, il film può rivelarsi “migliore” o “peggiore” a seconda dei gusti e delle aspettative dello spettatore. In questo caso, o per meglio dire nel mio caso, sono rimasto piacevolmente incuriosito, anche se non completamente soddisfatto. E vi spiego perché.



Stando a quanto raccontato dal trailer, il film sembrava un action movie in cui si parlava di agenti temporali che fermano i crimini prima che vengano commessi (chiaro rimando a Minority Report), invece la trama è molto più quieta, più introspettiva sotto certi punti di vista, e le sfumature drammatiche della pellicola prendono spesso il sopravvento. Il viaggio nel tempo, però, non è elemento di secondo piano, anzi: seguire tutti i paradossi e gli spostamenti temporali non è sempre facile, anche se la regia aiuta lo spettatore a non perdersi.
Seguiamo quindi la storia di un agente temporale senza nome che utilizza i viaggi nel tempo (inventati, secondo il film, nel 1981) per fermare un terrorista soprannominato Fizzle Bomber prima che compia un terribile attentato a New York nel 1975, uccidendo undicimila persone. Cercando di fermare questo attentato, l'agente rimane sfigurato da un'esplosione e viene soccorso da un uomo di cui non vediamo il volto; l'agente ferito vola nel 1992 e si fa impiantare un nuovo volto (quello dell'attore Ethan Hawke), dopodiché ritorna indietro nel 1970 per ricominciare da capo la sua missione per tentare di fermare Fizzle Bomber entro i successivi 5 anni (ogni tentativo di fermarlo richiede 5 anni di preparazione).
Nel 1970, quindi, si fa assumere come barman in un locale di New York e una sera incontra John (Sarah Snook, abbastanza credibile come ragazzo), un giovane che dice di lavorare come autore di una rubrica di confessioni intime su una rivista per donne. John, inoltre, dice all'agente di avere una storia incredibile da raccontare, e la racconta in un lunghissimo flashback: John è nato Jane (sempre Sarah Snook, versione femminile), bambina abbandonata in un orfanotrofio, cresciuta poi sempre più maschiaccio e dotata di intelligenza e doti fisiche superiori; tenta l'ammissione al programma spaziale femminile su spinta del misterioso dottor Robertson e inizia a frequentare uno sconosciuto che però, dopo averla sedotta e messa incinta, la abbandona e sparisce per sempre. Dopo il parto, i medici rivelano a Jane che in realtà lei possiede un apparato riproduttivo doppio (maschile e femminile) e che quello femminile è stato asportato per consentire la nascita della bambina; sottoposta ad una serie di terapie ormonali, ecco che Jane diventa John; le sfortune non finiscono qui: la figlia neonata viene rapita da un uomo misterioso. John, disperato, inizia una serie di lavori fra cui quello di scrittore di confessioni intime, e il flashback si conclude.



Nella seconda parte del film, l'agente temporale dichiara di essere tale e di lavorare proprio per il dottor Robertson, e quindi propone a John di diventare a sua volta un agente temporale, promettendogli di potersi vendicare dell'uomo che l'ha sedotta e abbandonata quando ancora era Jane. 
John quindi accetta ed entrambi volano nel 1964, dove John accidentalmente incontra Jane e capisce di essere proprio lui l'uomo che l'ha sedotta e abbandonata (primo paradosso temporale); John, innamoratosi di se stesso in versione femminile, capisce che non può impedire che le cose avvengano e quindi mette incinta Jane; nel frattempo l'agente temporale vola nel 1965 e rapisce la figlia neonata, e con la neonata torna nel 1946 per abbandonarla nell'orfanotrofio. Capiamo quindi che Jane è stata sedotta dalla se stessa del futuro (John) e dai due è nata la Jane neonata, in un paradosso temporale assurdo in cui i due genitori e la neonata sono la stessa persona.
A questo punto, l'agente temporale torna a prendere John nel 1964 e lo porta nel 1981, facendolo diventare un agente temporale a sua volta. Per l'agente temporale protagonista è giunto ora il momento della pensione, per cui vola nel 1975, poco prima dell'attentato di Fizzle Bomber, per tentare un'ultima volta di fermarlo, ma scopre che Fizzle Bomber è in realtà se stesso. Fizzle Bomber gli spiega che “Fizzle Bomber” nascerà proprio perché l'agente temporale lo ucciderà in quell'incontro, diventando quindi cattivo (altro paradosso). L'agente temporale in effetti lo uccide e capisce che diventerà Fizzle Bomber, e si torna alla scena iniziale, quando vede se stesso sfigurato da una bomba e aiuta se stesso ad andare nel 1992 per farsi cambiare la faccia (era lui l'uomo misterioso, si era aiutato da solo). Finalmente, però, vediamo l'agente temporale sfigurato in volto dalla bomba: è John! Capiamo quindi che la neonata abbandonata, Jane, John, l'agente temporale protagonista e Fizzle Bomber sono tutti la stessa persona, frutto di un continuo ricircolo di paradossi temporali infiniti.




Il punto di forza del film è costituito senz'altro dalla prima parte, in cui la storia della vita di Jane/John è costruita con una discreta maestria, toccando, seppur non approfonditamente, molti temi (sessualità, abbandono, amore, problemi di comunicazione, introversione, senso di incomprensione, anomalie fisiche, discriminazioni sessuali – forse troppa carne al fuoco, era meglio concentrarsi su pochi argomenti in modo completo) e costruendo scene nel complesso funzionali e ben dirette; siamo aiutati anche da un'ottima Sarah Snook nel doppio ruolo maschile/femminile: l'attrice costruisce bene il suo personaggio e c'è qualche sequenza che effettivamente colpisce a livello emotivo (dopo l'operazione, quando Jane si sforza di parlare come un uomo, e quando finalmente si vede in versione maschile davanti allo specchio).
La sceneggiatura perde invece ogni buonsenso nella seconda parte, dove sì, i paradossi temporali sono ben seguiti e vanno a coprire con i giusti tempi e nella giusta sequenza tutti gli indizi misteriosi rimasti irrisolti nella prima parte, soddisfacendo le aspettative e la curiosità dello spettatore, ma a tratti il contenuto sembra incredibilmente forzato ed esagerato; penso, alla luce della visione, che il momento in cui lo spettatore è spinto a dire “basta, è troppo” è quando si scopre che Fizzle Bomber è l'agente temporale (scena inutilmente intricata, soprattutto nel dialogo, quella che li vede a confronto, e che non influisce sul fatto che l'agente temporale sia la versione “vecchia” di Jane/John, ottenendo l'unico risultato di complicare le idee allo spettatore; a mio avviso era meglio che Fizzle Bomber rimanesse una persona terza). 
Uno script che quindi è tanto denso di contenuti nella prima parte, quanto di paradossi e intrighi nella seconda, con la sensazione che si sia voluto inserire troppo contenuto, a tratti inutilmente morboso (giusto insistere sulla sessualità di John/Jane, ma perché attaccarsi a domande intime durante i colloqui per il programma spaziale?). E poi, possibile che succedano tutte a Jane? Sembra che le sfortune che la colpiscano siano soltanto un espediente per giustificare gli intrighi della seconda parte del film, e il tutto suona estremamente forzato.




La fotografia risponde colpo su colpo, adattandosi bene alle atmosfere calde e intime della prima parte, e a quelle fredde della seconda (e di alcune scene della storia di John/Jane); la regia dimostra di avere consapevolezza e di sapersi ben gestire nei vari generi (dalla fantascienza, al drammatico, all'action), anche se non si spinge in voli pindarici o idee geniali perché la narrazione è talmente complessa che qualsiasi inquadratura al di fuori dell'ordinario avrebbe compromesso la comprensione della storyline. Le colonne sonore non presentano temi memorabili, e sì che si sarebbero potuti trovare; scenografie e costumi costituiscono la parte migliore, riproducendo bene le varie epoche storiche, mentre invece il make-up, fondamentale in una storia come questa in cui tutti i personaggi, alla fine, sono uno solo, non sembra reggere la sfida. Il cast, tolta Sarah Snook, è piuttosto piatto (incluso il protagonista Ethan Hawke, che a tratti sembra imprigionato nella sua stessa faccia e si muove e parla in modo troppo diverso da John/Jane, il che rende ancora più forzato il fatto che in realtà siano la stessa persona); sembra buono il sonoro, ma l'attenzione su questi aspetti è distorta a causa della complessità narrativa, che non scade nel totalmente incomprensibile grazie al buon montaggio.



Difficile elaborare un giudizio complessivo: un film che va preso per quello che è. 
Non bisogna aspettarsi Minority Report come il trailer lasciava intendere, chi cerca un action movie, scoprirà che Predestination non fa per lui. Chi cerca un drammatico, sa che questo film è troppo complesso per esserlo pienamente. Gli “interstellariani” sfegatati che cercano fondamenti scientifici sui paradossi temporali faranno meglio a rinunciare: qualsiasi legge scientifica viene completamente irrisa, qui. 
È un buon passatempo per la serata, in cui la maggiore soddisfazione è data dal vedere le tessere del puzzle che si incastrano, abbassando tutti i criteri di giudizio e abbandonandosi alla storia. Innovativo nel suo essere estremo, con qualche pecca qua e là, ne risulta un film tutto sommato godibile, in cui bisogna allentare le maglie del giudizio e lasciarsi trasportare dalla vicenda paradossale, in cui tutto va dato per buono. Piacevole.  



Voto finale: 6.5

giovedì 9 luglio 2015

RGD: Contagious - Epidemia Mortale

Qualche giorno fa, svolgendo il mio lavoro da editore, leggevo un articolo su una rivista americana, articolo che conteneva un'intervista ad un grosso publisher, il quale suggeriva agli autori emergenti di smetterla di scrivere storie sugli zombie: “Tutto ciò che per voi è una novità, io l'ho già letto mille volte”. Non aveva torto: il mercato degli zombie è vasto, ma saturo, e non solo nei libri, basti pensare a “World War Z” o alla fortunatissima serie “The Walking Dead”. Contagious – Epidemia Mortale (titolo originale Maggie) vuole cercare di introdurre la novità (sempre che esista davvero, quindi) nel mondo degli zombie su grande schermo, concentrando tutta la storia non sulla parte apocalittica, ma sul rapporto intimo fra un padre e una figlia contagiata, e sul dramma del diventare zombie. L'intera produzione, però, avrebbe fatto meglio ad ascoltare il grande publisher americano e lasciar perdere.



È tutto sbagliato in questo film, a partire dalla trama raccontata nella sceneggiatura (pessima) di John Scott 3. Siamo in uno scenario post-apocalittico, in cui la grossa crisi è già finita e il mondo si avvia verso la ripresa di una vita normale: dalle notizie che si apprendono (tramite il trito e ritrito espediente del radiogiornale), i provvedimenti di quarantena, coprifuoco e legge marziale presi dall'esercito, i medicinali soppressori studiati dai medici e la prevenzione dei contadini che bruciano i loro campi per impedire il diffondersi del virus (che comunque non si capisce bene se si prenda per via aerea, per i morsi dei contagiati o per altre vie) hanno funzionato: il contagio del virus necroambulist è diminuito del 30% e si stima che nel giro di due o tre mesi non ci saranno più nuovi contagi. Il contadino Wade Vogel (Arnold Schwarzenegger) percorre campi e città in cerca di sua figlia Maggie, che è stata contagiata da un morso (non si saprà mai di chi, perché, dov'era quand'è successo, sappiamo solo che è successo perché lei una volta ogni tanto sogna il suo "morsicatore"); quando Wade la trova è in ospedale, pronta per essere spedita in quarantena. Conscio dei metodi terribili che usano in quarantena per sopprimere i contagiati (perché mai usarli, poi? Basterebbe sparare loro per eliminarli), Wade riesce a portare Maggie a casa grazie al suo amico medico che, contro qualsiasi protocollo, etica professionale e senso logico, la lascia uscire dall'ospedale.



A casa, Maggie inizia la lenta “trasformazione” in zombie, mentre per lo spettatore inizia l'interminabile supplizio di un'ora e mezza di scene senza senso, piazzate una in fila all'altra, che raccontano fatti inutili: Wade costretto a uccidere due vicini di casa zombizzati ma innocui, i poliziotti che vorrebbero a tutti i costi portare via Maggie, il medico che suggerisce a Wade di ucciderla con un fucile oppure con un cocktail dolorosissimo di farmaci (anche se il perché dovrebbe essere doloroso, poi, non si sa, soprattutto considerando che gli zombie non provano dolore, tant'è che Maggie si trancia un dito da sola), ma non solo: altre lunghe sequenze padre-figlia in cui i due rievocano futili ricordi del passato (ad esempio il rapporto fra Wade e il suo furgone), passeggiano nei campi, vedono un giardino di margherite creato anni prima dalla madre morta (era zombie pure lei? Non si sa), oppure altre scene prive di logica, come quella in cui Maggie esce con i suoi compagni di scuola (nonostante il coprifuoco), alcuni dei quali perfino contagiati (ma se sono così pericolosi, allora perché girano insieme alla gente, visto che da un momento all'altro potrebbero sbranarla? I contagiati non vengono mica spediti in quarantena? Una contraddizione dietro l'altra).
Maggie inizia a diventare pericolosa quando comincia a percepire l'odore degli esseri umani piacevole come il cibo, poi sbrana una volpe nel bosco, ma nonostante tutto Wade preferisce vederla agonizzare e diventare uno zombie anziché porre fine alle sue sofferenze con una pallottola. Quando, temendo per la propria vita, finalmente si prepara a spararle, è troppo tardi: Maggie si suicida gettandosi dal tetto della casa, ripensando a sua madre (che non si è mai vista prima, e di cui si è parlato due volte in tutto il film, la cui visione perciò non suscita alcuna emozione).



Siamo al di fuori di ogni possibile giudizio: raramente mi sono trovato di fronte ad un simile sfregio all'arte della sceneggiatura. Le regole di coerenza e coesione vanno a farsi benedire in ogni inquadratura. Personaggi pessimi, senza passato (nessun'idea su cosa sia il virus, sul perché sia arrivato, su cosa facevano tutti prima del virus), ma anche senza conflitto, non c'è un briciolo di emozione, forse anche perché per un ruolo che nelle intenzioni è così drammatico (un padre costretto ad uccidere la figlia) Arnold Schwarzenegger non è l'attore più adatto (ce la mette tutta, ma fa fatica perfino a piangere in modo credibile). Dato che il film l'ha prodotto lui (insieme ad altre sette case di produzione, cosa veramente inconcepibile visti i risultati), posso anche passarci sopra, ma il resto del cast è più che pessimo, non si salva proprio nessuno.
La regia abusa di inquadrature e di dettagli, una sequenza infinita di dettagli che non aggiungono nulla alla narrazione, ho contato fino a 25 inquadrature in una scena di 4 minuti senza dialoghi in cui non succedeva proprio niente (c'era Schwarzenegger che girava in una casa abbandonata). I ritmi sono lentissimi, si ha un avvenimento ogni 4-5 scene, e nonostante il buon montaggio (aiutato dalle infinite inquadrature), il buon make-up, i decenti effetti visivi, il discreto sonoro e la buona fotografia (desaturata e priva di contrasti), tutte cose comunque al minimo necessario per mantenere uno standard professionale, assistere allo sviluppo della pellicola è un vero supplizio, e la soporifera colonna sonora non aiuta.



Lento, incoerente, inconcludente, spreca una buona intuizione (spostare il dramma dall'apocalisse al conflitto emotivo) non scavando mai a fondo nella storia e nei personaggi.
Non c'è un messaggio (quale dovrebbe essere? Che un contagiato, in fondo, non perde mai completamente la sua umanità?), non c'è mai tensione, non c'è paura, non c'è dolore, non c'è identificazione, non c'è coerenza (dicono una cosa e ne fanno un'altra: la radio annuncia “non possiamo aprire le scuole” e gli amici di Maggie dicono “fra poco ci sarà la scuola, quindi non potremo più uscire la sera”; i contagiati sono pericolosamente letali, ma tutti si comportano come se nulla fosse, gli stessi contagiati non hanno mai paura di morire, accettano semplicemente la loro sorte), insomma non c'è un solo motivo per cui si dovrebbe rimanere in sala fino alla fine, se non forse il fatto di aver pagato il biglietto.



Con una netta revisione della sceneggiatura, avrebbe potuto essere un buon cortometraggio di 20 minuti. Invece ne esce un film a elettroencefalogramma piatto, uno zombie a sua volta. Bocciatissimo.


Voto finale: 4

venerdì 3 luglio 2015

RGD CLASSICS: Nuovo Cinema Paradiso (1988)

Per molti anni ho ritenuto che questo film fosse una specie di metafora della mia vita e che io fossi un po' Salvatore, destinato ad una vita di solitudine amorosa per coltivare la grande passione del cinema. Fortunatamente per me, le cose sono andate diversamente da un punto di vista affettivo, ma è pur vero che il cinema è un'amante vorace, che ti vuole tutto per sé.
Un po' quello che è successo a Giuseppe Tornatore, che ha deciso di raccontare largamente se stesso in Nuovo Cinema Paradiso, il suo più grande successo. Come ogni opera maestosa, anche NCP ha avuto bisogno di superare grandi ostacoli per poter entrare nell'Olimpo della settima arte.
In questo caso, i problemi sono stati principalmente di natura distributiva: per parola dello stesso Tornatore, il film nel 1988 andò malissimo al cinema, eccezion fatta per la città di Messina, dove il proprietario del cinema Aurora spinse il pubblico ad entrare gratis, invitandolo a pagare il biglietto solo se il film fosse stato gradito (paradossalmente, anni dopo, quel cinema Aurora ha fatto la fine del NCP: chiuso).




Tornatore, regista e sceneggiatore, e il suo produttore Franco Cristaldi, decisero per una drastica revisione della pellicola. Via tutte le parti che riguardavano l'amore romantico del protagonista e tutti i suoi dubbi amletici (secondo atto); lasciato invece ampio spazio alla sua infanzia e alla sua infatuazione perpetua con il cinema (primo e terzo atto). Il film venne quindi ridotto in maniera consistente (da 180 a 120 minuti) e, del tutto inaspettatamente, arrivò addirittura la nomination agli Oscar 1990, statuetta che la pellicola vinse come Miglior Film Straniero, premio che andò a fare compagnia al Golden Globe e a ben 5 BAFTA.
Inutile dirlo, dopo il premio americano la distribuzione in Italia della versione ridotta (per mano della Titanus) fu un trionfo assoluto. Fu allora che Tornatore ripropose la sua versione originale da 3 ore, per aumentare il proprio successo e riproporre la sua intenzione autoriale (e con buona ragione: è decisamente migliore!)



Ecco perché l'unica vera trama di Nuovo Cinema Paradiso che mi sento di raccontare e recensire è quella della versione estesa. Il film è diviso in tre atti molto marcati.
Nel primo atto, il regista Salvatore Di Vita (Jacques Perrin), rientrando nella sua casa di Roma, apprende dalla sua compagna, in una notte estiva con tanto di temporale, che è morto un certo Alfredo e che due giorni dopo ci sarà il funerale a Giancaldo, in Sicilia, paese natale di Salvatore. Questi intraprende quindi un lungo viaggio nei ricordi, risalendo addirittura all'epoca in cui era bambino (Salvatore Cascio, un vero portento). Siamo nell'immediato dopoguerra, l'Italia è allo stremo e ancor di più lo è la Sicilia: Giancaldo è un piccolo paesino che per Salvatore rappresenta il centro del mondo, soprattutto perché è uno dei pochi ad avere una sala cinematografica, il Cinema Paradiso, e il cinematografo è la passione più grande del piccolo Salvatore; Alfredo (Philippe Noiret, magistrale) è il proiezionista del cinema, nonché “padre sostituto” di Salvatore, dal momento che il vero papà è morto in guerra e la mamma è sempre sola con due figli piccoli. Il rapporto fra Alfredo e Salvatore è simpaticamente ricattatorio e conflittuale, ma in realtà si vogliono entrambi molto bene e Alfredo fa di tutto per coltivare la passione di Salvatore per il cinema. E così la vita in paese scorre tranquilla, fra aneddoti, figure caratteristiche, episodi divertenti, e soprattutto film proiettati al Paradiso. Ma poi le cose cambiano completamente quando, una sera, la pellicola prende fuoco e il cinema finisce in cenere; il piccolo Salvatore, eroicamente, si lancia dentro al cinema ed estrae lo svenuto Alfredo, giusto in tempo per salvargli la vita, ma non abbastanza velocemente da impedirgli di diventare cieco.



Nel secondo atto, passano gli anni e Salvatore diventa adolescente (Marco Leonardi, qui in uno dei suoi primi ruoli). Grazie agli investimenti privati di un napoletano arricchitosi col Totocalcio viene costruito il Nuovo Cinema Paradiso, ed è proprio Salvatore a sostituire il cieco Alfredo come proiezionista: sono cambiati i tempi e i costumi, l'Italia è ora molto più pruriginosa e disinibita, il cinema diventa luogo peccaminoso sia in sala che sullo schermo e anche Salvatore inizia le sue prime fughe sessuali e amorose: il ragazzo perde infine la testa per Elena, figlia di una famiglia del nord trasferitasi in Sicilia per lavoro. La loro relazione è osteggiata dai genitori di lei, e nel profondo del cuore anche da Alfredo, che vede nella ragazza un pericolo per Salvatore, che sta iniziando ad abbandonare i suoi sogni di fare il cinema, accecato dalla passione. Quando la famiglia di lei si trasferisce, Salvatore non riesce a salutarla prima di partire a sua volta per il servizio militare. Quando ritorna al paese dopo la naja, nulla è più come sembra: tutto ciò che ha costituito la sua gioventù non c'è più, molti anziani sono morti, i giovani sono andati tutti nelle grandi città; rimane soltanto il vecchio e cieco Alfredo, che gli ordina di partire per Roma, di intraprendere la carriera di regista e di non tornare mai più.
Nel terzo atto, finisce il flashback e Salvatore torna quindi al paese per il funerale di Alfredo. Siamo negli anni Novanta, tutto è cambiato: le automobili tappezzano le strade, il Nuovo Cinema Paradiso sta per essere demolito, distrutto dalla concorrenza di televisione e videocassette. Dopo il funerale, il giorno della demolizione del Cinema (una scena estremamente toccante) Salvatore vede una ragazza simile a Elena: scoprirà essere la figlia di lei, nel frattempo sposatasi con un suo ex compagno di classe. I due si incontreranno clandestinamente una notte e scopriranno che fu Alfredo a fare in modo di non farli più incontrare: in un coraggioso atto di vero amore paterno, ha preferito farsi odiare da Salvatore e separarlo con la forza da Elena, piuttosto che negargli la possibilità di realizzare il suo sogno di diventare regista. Come regalo, gli ha lasciato in eredità una pellicola contenente tutti i baci censurati nei più celebri film degli anni Quaranta e Cinquanta, che lui e Salvatore tagliavano insieme in un tempo che sembra così lontano.



Difficile non farsi catturare dai sentimenti in questa pellicola, che nonostante la durata fila via liscia e, anzi, quasi chiede di essere immediatamente visionata di nuovo al termine. Siamo di fronte alla cosiddetta sceneggiatura (quasi) perfetta: si piange, si ride, c'è azione, c'è tensione, c'è malinconia, speranza e sogno. 
Nella storia si parla di cinema, ma soprattutto di persone: il centro del film non è solo il rapporto fra Salvatore e il cinematografo (vero e proprio personaggio in carne e ossa), ma fra Salvatore e le figure che hanno caratterizzato la sua vita, in primis Alfredo, uomo burbero ma di buon cuore, che sacrifica tutto se stesso per Salvatore, nel quale vede non solo un bambino (e poi un ragazzo) senza altre guide, ma anche un riscatto per se stesso, per la vita che non ha mai potuto fare, vede in lui la gioia per la gioventù e per le nuove generazioni. Alfredo incarna il passato tanto quanto Salvatore incarna il futuro, e anche se Salvatore non vuole darlo a vedere, c'è sempre Alfredo dietro ogni azione che compie, dietro ogni scelta che prende. Ma anche la mamma di Salvatore (Pupella Maggio da anziana, Antonella Attili da giovane) è un personaggio fondamentale: da sempre vista come ostacolo e come legame col passato per Salvatore, è in realtà una figura fragile, rimasta sola con due bambini piccoli, che ha sempre dovuto badare a se stessa e che non si è mai opposta a questa relazione "extra-familiare" fra Alfredo e suo figlio, sapendo che in fondo Alfredo era la guida giusta per il bambino.



Meravigliosi tutti i personaggi di contorno, troppi perfino da ricordare (l'eccezionale Leopoldo Trieste nel ruolo del prete, Enzo Cannavale nel ruolo del napoletano Spaccafico, Leo Gullotta nella parte del ritardato assistente di Alfredo, ma anche la coppia che al cinema si ama, quello che conosce tutti i film a memoria, quello che dorme sempre nel cinema, il compagno di classe stupido che, con satira pungente da parte di Tornatore, finisce per fare il politico, fino ad arrivare al boss mafioso locale ucciso durante una proiezione), sono tutti inseriti in un primo atto che è un vero e proprio spaccato su un'epoca, su un mondo che oggi non esiste più, un mondo in cui il cinema e la vita quotidiana si intrecciavano (infinite le citazioni di film famosi che vengono mostrati nel primo atto, da I vitelloni a La terra trema, passando perfino dai cinegiornali dell'Istituto Luce – e c'è spazio anche per la televisione al cinema), un mondo fatto di piccoli aneddoti in un piccolo paese, in cui anche gli adulti andavano a fare gli esami di quinta elementare (scena esilarante), in cui ci si portava la sedia al cinema da casa, in cui il prete era la massima autorità morale e culturale, in cui con 50 lire si pagava un biglietto, in cui le macerie della guerra erano ancora ai lati delle strade, in cui i lavoratori emigravano in Germania e in cui il "pezzo di carta" rappresentava la differenza fra una vita dignitosa e una vita di stenti.
Un mondo che per Salvatore rappresenta l'intero mondo, ma che nel secondo atto inizia ad apparire piccolo, ristretto: un secondo atto che sembra meno coinvolgente, troppo incentrato sui drammi d'amore e sui patemi di un adolescente insicuro, che perde quella magia di ritratto del mondo (che è stato tagliato integralmente nella versione ridotta del film), ma che è espressione e passaggio necessario di quello stato d'animo transitorio di Salvatore, senza il quale il terzo atto perderebbe tutta la sua malinconia, il suo senso di qualcosa che era e che necessariamente non è più, senza il quale lo spettatore non riuscirebbe a percepire quel senso di “col senno di poi”, di "cosa sarebbe potuto essere", di "rimpianto per una strada che si sarebbe potuta percorrere" che Tornatore vuole trasmettere, un terzo atto che riconquista quel legame con il primo e conferma la teoria di Alfredo: "devono passare molti anni perché tu possa ritrovare la tua gente, il luogo in cui sei nato". 



Certo il cast aiuta molto (Noiret su tutti, ma anche il piccolo Salvatore Cascio, vero portento, un talento incredibile, una naturalezza che sconvolge – e si è perfino ridoppiato da solo!), ma la regia è sapiente, i ritmi del montaggio sono perfetti e ogni inquadratura è un quadro che volge al fine del racconto metacinematografico: lo schermo nello schermo. Le musiche di Morricone sono ben oltre l'emozionante, con un tema d'amore (composto da suo figlio) che ancora oggi dà i brividi e che spacca con una lacrima anche il più duro dei cuori di pietra nel finale, quando Salvatore osserva il mix di “baci cinematografici” che Alfredo gli ha regalato. 
Qualche pecca arriva per ingenuità, su stessa ammissione di Tornatore, da alcuni fuori fuoco e da un sonoro (di presa diretta e di post-produzione) talvolta davvero penalizzante. Ma la potenza emotiva e la carica filosofica, storica, artistica e spirituale del film è talmente elevata che ci si passa quasi sopra - forse siamo troppo abituati oggi allo splendore tecnico e alla confezione, ma non è sempre questo quello che conta.




In conclusione, un'opera meravigliosa in cui sono molte le frasi memorabili, ma su tutte ne voglio ricordare una, che è il vero messaggio del film, e che è l'ultimo lascito di Alfredo prima di separarsi per sempre da Salvatore e di non vederlo mai più, un messaggio che dalla prima volta che ho visto il film ho deciso di adottare come filosofia di vita, e che solo chi ha visto Nuovo Cinema Paradiso può comprendere fino in fondo: “Qualunque cosa farai, amala... come amavi la cabina del Paradiso quando eri piccolino”.



Voto finale 9.5