venerdì 3 luglio 2015

RGD CLASSICS: Nuovo Cinema Paradiso (1988)

Per molti anni ho ritenuto che questo film fosse una specie di metafora della mia vita e che io fossi un po' Salvatore, destinato ad una vita di solitudine amorosa per coltivare la grande passione del cinema. Fortunatamente per me, le cose sono andate diversamente da un punto di vista affettivo, ma è pur vero che il cinema è un'amante vorace, che ti vuole tutto per sé.
Un po' quello che è successo a Giuseppe Tornatore, che ha deciso di raccontare largamente se stesso in Nuovo Cinema Paradiso, il suo più grande successo. Come ogni opera maestosa, anche NCP ha avuto bisogno di superare grandi ostacoli per poter entrare nell'Olimpo della settima arte.
In questo caso, i problemi sono stati principalmente di natura distributiva: per parola dello stesso Tornatore, il film nel 1988 andò malissimo al cinema, eccezion fatta per la città di Messina, dove il proprietario del cinema Aurora spinse il pubblico ad entrare gratis, invitandolo a pagare il biglietto solo se il film fosse stato gradito (paradossalmente, anni dopo, quel cinema Aurora ha fatto la fine del NCP: chiuso).




Tornatore, regista e sceneggiatore, e il suo produttore Franco Cristaldi, decisero per una drastica revisione della pellicola. Via tutte le parti che riguardavano l'amore romantico del protagonista e tutti i suoi dubbi amletici (secondo atto); lasciato invece ampio spazio alla sua infanzia e alla sua infatuazione perpetua con il cinema (primo e terzo atto). Il film venne quindi ridotto in maniera consistente (da 180 a 120 minuti) e, del tutto inaspettatamente, arrivò addirittura la nomination agli Oscar 1990, statuetta che la pellicola vinse come Miglior Film Straniero, premio che andò a fare compagnia al Golden Globe e a ben 5 BAFTA.
Inutile dirlo, dopo il premio americano la distribuzione in Italia della versione ridotta (per mano della Titanus) fu un trionfo assoluto. Fu allora che Tornatore ripropose la sua versione originale da 3 ore, per aumentare il proprio successo e riproporre la sua intenzione autoriale (e con buona ragione: è decisamente migliore!)



Ecco perché l'unica vera trama di Nuovo Cinema Paradiso che mi sento di raccontare e recensire è quella della versione estesa. Il film è diviso in tre atti molto marcati.
Nel primo atto, il regista Salvatore Di Vita (Jacques Perrin), rientrando nella sua casa di Roma, apprende dalla sua compagna, in una notte estiva con tanto di temporale, che è morto un certo Alfredo e che due giorni dopo ci sarà il funerale a Giancaldo, in Sicilia, paese natale di Salvatore. Questi intraprende quindi un lungo viaggio nei ricordi, risalendo addirittura all'epoca in cui era bambino (Salvatore Cascio, un vero portento). Siamo nell'immediato dopoguerra, l'Italia è allo stremo e ancor di più lo è la Sicilia: Giancaldo è un piccolo paesino che per Salvatore rappresenta il centro del mondo, soprattutto perché è uno dei pochi ad avere una sala cinematografica, il Cinema Paradiso, e il cinematografo è la passione più grande del piccolo Salvatore; Alfredo (Philippe Noiret, magistrale) è il proiezionista del cinema, nonché “padre sostituto” di Salvatore, dal momento che il vero papà è morto in guerra e la mamma è sempre sola con due figli piccoli. Il rapporto fra Alfredo e Salvatore è simpaticamente ricattatorio e conflittuale, ma in realtà si vogliono entrambi molto bene e Alfredo fa di tutto per coltivare la passione di Salvatore per il cinema. E così la vita in paese scorre tranquilla, fra aneddoti, figure caratteristiche, episodi divertenti, e soprattutto film proiettati al Paradiso. Ma poi le cose cambiano completamente quando, una sera, la pellicola prende fuoco e il cinema finisce in cenere; il piccolo Salvatore, eroicamente, si lancia dentro al cinema ed estrae lo svenuto Alfredo, giusto in tempo per salvargli la vita, ma non abbastanza velocemente da impedirgli di diventare cieco.



Nel secondo atto, passano gli anni e Salvatore diventa adolescente (Marco Leonardi, qui in uno dei suoi primi ruoli). Grazie agli investimenti privati di un napoletano arricchitosi col Totocalcio viene costruito il Nuovo Cinema Paradiso, ed è proprio Salvatore a sostituire il cieco Alfredo come proiezionista: sono cambiati i tempi e i costumi, l'Italia è ora molto più pruriginosa e disinibita, il cinema diventa luogo peccaminoso sia in sala che sullo schermo e anche Salvatore inizia le sue prime fughe sessuali e amorose: il ragazzo perde infine la testa per Elena, figlia di una famiglia del nord trasferitasi in Sicilia per lavoro. La loro relazione è osteggiata dai genitori di lei, e nel profondo del cuore anche da Alfredo, che vede nella ragazza un pericolo per Salvatore, che sta iniziando ad abbandonare i suoi sogni di fare il cinema, accecato dalla passione. Quando la famiglia di lei si trasferisce, Salvatore non riesce a salutarla prima di partire a sua volta per il servizio militare. Quando ritorna al paese dopo la naja, nulla è più come sembra: tutto ciò che ha costituito la sua gioventù non c'è più, molti anziani sono morti, i giovani sono andati tutti nelle grandi città; rimane soltanto il vecchio e cieco Alfredo, che gli ordina di partire per Roma, di intraprendere la carriera di regista e di non tornare mai più.
Nel terzo atto, finisce il flashback e Salvatore torna quindi al paese per il funerale di Alfredo. Siamo negli anni Novanta, tutto è cambiato: le automobili tappezzano le strade, il Nuovo Cinema Paradiso sta per essere demolito, distrutto dalla concorrenza di televisione e videocassette. Dopo il funerale, il giorno della demolizione del Cinema (una scena estremamente toccante) Salvatore vede una ragazza simile a Elena: scoprirà essere la figlia di lei, nel frattempo sposatasi con un suo ex compagno di classe. I due si incontreranno clandestinamente una notte e scopriranno che fu Alfredo a fare in modo di non farli più incontrare: in un coraggioso atto di vero amore paterno, ha preferito farsi odiare da Salvatore e separarlo con la forza da Elena, piuttosto che negargli la possibilità di realizzare il suo sogno di diventare regista. Come regalo, gli ha lasciato in eredità una pellicola contenente tutti i baci censurati nei più celebri film degli anni Quaranta e Cinquanta, che lui e Salvatore tagliavano insieme in un tempo che sembra così lontano.



Difficile non farsi catturare dai sentimenti in questa pellicola, che nonostante la durata fila via liscia e, anzi, quasi chiede di essere immediatamente visionata di nuovo al termine. Siamo di fronte alla cosiddetta sceneggiatura (quasi) perfetta: si piange, si ride, c'è azione, c'è tensione, c'è malinconia, speranza e sogno. 
Nella storia si parla di cinema, ma soprattutto di persone: il centro del film non è solo il rapporto fra Salvatore e il cinematografo (vero e proprio personaggio in carne e ossa), ma fra Salvatore e le figure che hanno caratterizzato la sua vita, in primis Alfredo, uomo burbero ma di buon cuore, che sacrifica tutto se stesso per Salvatore, nel quale vede non solo un bambino (e poi un ragazzo) senza altre guide, ma anche un riscatto per se stesso, per la vita che non ha mai potuto fare, vede in lui la gioia per la gioventù e per le nuove generazioni. Alfredo incarna il passato tanto quanto Salvatore incarna il futuro, e anche se Salvatore non vuole darlo a vedere, c'è sempre Alfredo dietro ogni azione che compie, dietro ogni scelta che prende. Ma anche la mamma di Salvatore (Pupella Maggio da anziana, Antonella Attili da giovane) è un personaggio fondamentale: da sempre vista come ostacolo e come legame col passato per Salvatore, è in realtà una figura fragile, rimasta sola con due bambini piccoli, che ha sempre dovuto badare a se stessa e che non si è mai opposta a questa relazione "extra-familiare" fra Alfredo e suo figlio, sapendo che in fondo Alfredo era la guida giusta per il bambino.



Meravigliosi tutti i personaggi di contorno, troppi perfino da ricordare (l'eccezionale Leopoldo Trieste nel ruolo del prete, Enzo Cannavale nel ruolo del napoletano Spaccafico, Leo Gullotta nella parte del ritardato assistente di Alfredo, ma anche la coppia che al cinema si ama, quello che conosce tutti i film a memoria, quello che dorme sempre nel cinema, il compagno di classe stupido che, con satira pungente da parte di Tornatore, finisce per fare il politico, fino ad arrivare al boss mafioso locale ucciso durante una proiezione), sono tutti inseriti in un primo atto che è un vero e proprio spaccato su un'epoca, su un mondo che oggi non esiste più, un mondo in cui il cinema e la vita quotidiana si intrecciavano (infinite le citazioni di film famosi che vengono mostrati nel primo atto, da I vitelloni a La terra trema, passando perfino dai cinegiornali dell'Istituto Luce – e c'è spazio anche per la televisione al cinema), un mondo fatto di piccoli aneddoti in un piccolo paese, in cui anche gli adulti andavano a fare gli esami di quinta elementare (scena esilarante), in cui ci si portava la sedia al cinema da casa, in cui il prete era la massima autorità morale e culturale, in cui con 50 lire si pagava un biglietto, in cui le macerie della guerra erano ancora ai lati delle strade, in cui i lavoratori emigravano in Germania e in cui il "pezzo di carta" rappresentava la differenza fra una vita dignitosa e una vita di stenti.
Un mondo che per Salvatore rappresenta l'intero mondo, ma che nel secondo atto inizia ad apparire piccolo, ristretto: un secondo atto che sembra meno coinvolgente, troppo incentrato sui drammi d'amore e sui patemi di un adolescente insicuro, che perde quella magia di ritratto del mondo (che è stato tagliato integralmente nella versione ridotta del film), ma che è espressione e passaggio necessario di quello stato d'animo transitorio di Salvatore, senza il quale il terzo atto perderebbe tutta la sua malinconia, il suo senso di qualcosa che era e che necessariamente non è più, senza il quale lo spettatore non riuscirebbe a percepire quel senso di “col senno di poi”, di "cosa sarebbe potuto essere", di "rimpianto per una strada che si sarebbe potuta percorrere" che Tornatore vuole trasmettere, un terzo atto che riconquista quel legame con il primo e conferma la teoria di Alfredo: "devono passare molti anni perché tu possa ritrovare la tua gente, il luogo in cui sei nato". 



Certo il cast aiuta molto (Noiret su tutti, ma anche il piccolo Salvatore Cascio, vero portento, un talento incredibile, una naturalezza che sconvolge – e si è perfino ridoppiato da solo!), ma la regia è sapiente, i ritmi del montaggio sono perfetti e ogni inquadratura è un quadro che volge al fine del racconto metacinematografico: lo schermo nello schermo. Le musiche di Morricone sono ben oltre l'emozionante, con un tema d'amore (composto da suo figlio) che ancora oggi dà i brividi e che spacca con una lacrima anche il più duro dei cuori di pietra nel finale, quando Salvatore osserva il mix di “baci cinematografici” che Alfredo gli ha regalato. 
Qualche pecca arriva per ingenuità, su stessa ammissione di Tornatore, da alcuni fuori fuoco e da un sonoro (di presa diretta e di post-produzione) talvolta davvero penalizzante. Ma la potenza emotiva e la carica filosofica, storica, artistica e spirituale del film è talmente elevata che ci si passa quasi sopra - forse siamo troppo abituati oggi allo splendore tecnico e alla confezione, ma non è sempre questo quello che conta.




In conclusione, un'opera meravigliosa in cui sono molte le frasi memorabili, ma su tutte ne voglio ricordare una, che è il vero messaggio del film, e che è l'ultimo lascito di Alfredo prima di separarsi per sempre da Salvatore e di non vederlo mai più, un messaggio che dalla prima volta che ho visto il film ho deciso di adottare come filosofia di vita, e che solo chi ha visto Nuovo Cinema Paradiso può comprendere fino in fondo: “Qualunque cosa farai, amala... come amavi la cabina del Paradiso quando eri piccolino”.



Voto finale 9.5

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