venerdì 26 giugno 2015

RGD: Birdman - o l'imprevedibile virtù dell'ignoranza

Mi sono preso il mio tempo per fare la recensione di questo film uscito a gennaio perché, essendo anche regista e sceneggiatore, quando lo vidi al cinema rimasi totalmente abbagliato dall'aspetto tecnico del film e non sarei stato obiettivo. Cento minuti di piano sequenza, dopotutto, stupiscono chiunque, figurati uno che sa quanto difficile è realizzarlo (anche se qui sono sedici, uno in sequenza all'altro in modo che sembrino un unicum). Di fatto, quindi, alla prima visione mi sono "perso" la storia, i personaggi, le sfumature.
Sono passati sei mesi, e mentre mi concentravo sul dimenticare tale prodigio, Birdman - o l'imprevedibile virtù dell'ignoranza ha vinto 4 Oscar (i più importanti: regia, sceneggiatura originale, fotografia e miglior film) con due incredibili secondi posti (attore protagonista e non-protagonista); uscito per l'home video, l'ho comprato e rivisto, questa volta concentrandomi sulla trama, sui personaggi, sulla recitazione. Rimane un film fantastico. Ma ecco in arrivo un'opinione abbastanza impopolare: m'era piaciuto di più prima.



Non che la trama sia brutta, anzi: il film parla di Riggan Thompson (Michael Keaton, superbo), un attore diventato famoso e miliardario agli inizi degli anni Novanta interpretando il supereroe Birdman in una grande trilogia hollywoodiana, e che in seguito ha sperperato tutto (soldi, carriera e vita personale). Riggan, ormai sulla cinquantina e sul viale del tramonto, vuole dimostrare al mondo (e soprattutto a se stesso) di non essere solo Birdman, ma di essere uno splendido attore drammatico e mette quindi in scena uno spettacolo a Broadway tratto da libro di Raymond Carver (l'autore che lo scoprì come attore anni prima) “Di cosa parliamo quando parliamo d'amore”.


Il problema è che Riggan è completamente sopraffatto dalle lotte interiori (sente nella sua testa la voce di Birdman che continua a umiliarlo e che cerca di convincerlo a tornare ai blockbuster dai soldi facili, e si convince di avere poteri paranormali), ma anche dalle lotte esteriori: i soldi vengono a mancare nonostante il suo migliore amico, avvocato e produttore Jake (Zach Galifianakis, magro e convincente) abbia dato fondo a ogni riserva, cosa che costringe Riggan a ipotecare la sua casa di Malibu. Inoltre, un riflettore cade in testa all'attore co-protagonista che minaccia di far causa al teatro. A conclusione del tormento di Riggan, sua figlia Sam (Emma Stone), ex tossicodipendente, gli fa da assistente, ma il loro rapporto è tormentato perché lui è sempre stato un padre assente (oltre che un marito assente e infedele, e infatti è divorziato); e perfino la storia d'amore fra Riggan e l'attrice Laura (Andrea Riseborough) sta andando alla rovina. Insomma, la vita di Riggan è un vero casino, e mancano 4 giorni alla premiére.
Come parziale soluzione a questo disastro, per sostituire l'attore infortunato viene rimediato Mike Shiner (Edward Norton, più che pazzesco), marito della protagonista dello spettacolo Leslie (Naomi Watts) con cui è in crisi piena, maniaco della verità sul palcoscenico, preciso all'inverosimile e dal carattere completamente ingestibile; Mike attira il pubblico di Broadway, non si può mandare via, ma Riggan teme che gli rubi la scena in questo spettacolo per cui ha dato tutto.
Le tre anteprime vanno un disastro, mentre la situazione degenera sempre di più e Riggan si trova a fronteggiare tutti i suoi conflitti personali (con Birdman), familiari, amorosi e professionali (la giornalista del Times, Tabitha Dickinson, è pronta a massacrarlo per dare l'esempio a tutti gli attorucoli di Hollywood che l'Arte è un'altra cosa).
Ma inaspettatamente, lo spettacolo diventa un successo quando Riggan, al colmo della disperazione, tenta il suicidio in scena. E questa è la svolta della sua vita: gloria e riconoscimenti artistici piombano in massa e finalmente Riggan può mettersi Birdman alle spalle.



C'è molto da raccontare in questa pellicola e la vera sfida del film è quella di farlo in piano sequenza: i sedici sequence shots sono affiancati uno all'altro in modo da sembrare uno solo e la telecamera continua a girare vorticosamente fra corridoi, sale teatrali, Times Square, teatri, bar, tetti, strade e platee, con una fluidità meravigliosa che fa riscoprire al pubblico la meraviglia che provarono i francesi nel 1895 davanti al treno dei Fratelli Lumiére: pura estasi. Impossibile non premiare il film come Miglior Film e Miglior Fotografia, è tutto semplicemente perfetto. La tecnica audio-video non ha una sbavatura, non c'è un errore, il ritmo è perfetto e non era affatto semplice scandire il passare dei giorni senza mai staccare la telecamera.
E questo è merito anche della sceneggiatura, che costruisce i personaggi in maniera perfetta attraverso dialoghi e situazioni sempre nuove, in modo tale che i personaggi si muovano in un flusso coordinato per cui prima io spettatore ne seguo uno, poi l'altro, ma nel frattempo il primo ha fatto qualcosa che io capisco che è successa senza che me lo si dica. Molti i monologhi, e forse in alcuni punti i personaggi tendono troppo a “spiegarsi”, ma non trascuriamo due elementi fondamentali del film che consentono di "passare sopra" a questo difetto: il primo è il meta-spettacolo, Birdman è una piéce teatrale raccontata al cinema, in cui lo spettacolo che Riggan mette in scena si confonde con la sua vera vita; il secondo è la regia sublime che consente, sempre senza staccare la macchina da presa, di passare agilmente da ciò che Riggan vive nella sua testa alla realtà dei fatti (la scena in cui Riggan finisce il suo volo fra i grattacieli e poi spunta il tassista che in realtà lo ha accompagnato è magistrale).
Ci sono poi alcuni espedienti meravigliosi: la colonna sonora, quasi esclusivamente suonata con la batteria, viene integrata nel film, dato che per due volte Riggan passa accanto al batterista che la suona. Geniale. Oppure memorabile è la manifestazione in carne e ossa di Birdman, con una momentanea trasformazione del film in un blockbuster hollywoodiano.



Perché allora dico che mi era piaciuto di più la prima volta? Perché sotto la patina di magnificenza c'è la sensazione che ci sia davvero troppa carne al fuoco, cosa che ha impedito di approfondire meglio alcuni personaggi (soprattutto la figlia Sam, l'avvocato Jake e l'attrice Laura); Naomi Watts stona nel cast ed è abbastanza fastidiosa nel ruolo di Leslie con il suo conflitto di essere attrice per la prima volta a Broadway che non valeva la pena inserire e che sfocia in un bacio lesbo con Laura del tutto gratuito e forzato.
Ma soprattutto, il dialogo fra Riggan e la critica Tabitha Dickinson al bar sembra quasi voler mettere le mani avanti al film stesso: se le critiche mi stroncano, a voi non costa niente farle, non rischiate nulla, ma per me invece questo film è tutto. È un peccato che tutto si riduca a questo, perché il rapporto con la critica nella sceneggiatura lascia trasparire soltanto puro astio verso una categoria, un astio che sa molto di personale (non solo di Riggan, ma del regista Inarritu stesso), mentre invece sarebbe stato meglio ampliare il discorso, come invece è stato fatto bene riguardo al tema della rivalità artistica, economica e culturale fra chi fa cinema e chi teatro, con tutte le spocchie e i luoghi comuni che la discussione atavica si porta dietro.



Qualche falla che comunque non impedisce a Bidman di essere il film dell'anno 2014, nonché un vero e proprio capolavoro di tecnica cinematografica. È uno di quei film che forse piace di più ai tecnici di settore che al pubblico comune, ma dato il tema trattato è giusto che sia così. I premi sono tutti meritati, anzi: i mancati Oscar ai due attori Keaton e Norton fanno quasi male (ma Keaton aveva vinto già il Golden Globe).
Se non altro, qualcosa di veramente nuovo nel panorama cinematografico. Ce n'era veramente bisogno.


Voto finale: 8.5
(9.5 la tecnica, 7.5 il resto)




martedì 23 giugno 2015

RGD: Jurassic World

Operazione molto rischiosa, quella di riprendere in mano la saga di Jurassic Park. Il primo capitolo ha fatto innamorare dei dinosauri milioni di persone nel mondo, ed è entrato nell'immaginario collettivo con parchi a tema, magliette, una vera e propria dinosauro-mania. Operazione rischiosa, quindi, perché è come trovarsi in una partita a poker a giocarsi l'all-in con in mano una coppia d'assi: la probabilità di vincere è sì molto alta (il pubblico accorrerà in massa), ma l'avversario potrebbe sempre avere un tris (rischio fallimento dietro l'angolo, dunque), senza contare che i due sequel già usciti (Il Mondo Perduto e Jurassic Park III) sono stati piuttosto deludenti, il terzo soprattutto.
Insomma, gli autori erano senz'altro consapevoli di avere fra le mani dinamite pura, eppure l'hanno maneggiata con cura, lasciando esplodere soltanto alcuni candelotti che generano danno inferiore rispetto al previsto: perciò, signore e signori, benvenuti al nuovo Jurassic World.



Ecco quindi che, secondo la trama, Isla Nublar (immaginaria isola al largo del Costa Rica) riapre i battenti 23 anni dopo la chiusura del fallimentare Jurassic Park; questa volta a metterci tutti i soldi è Simon Masrani, di origine indiana nonché ottavo uomo più ricco del mondo, che ha ricevuto l'eredità morale del parco direttamente da John Hammond prima della sua morte e intende portare avanti lo spettacolo, rendendolo ancora più maestoso e tecnologicamente avanzato; per fare questo richiama a lavorare il dottor Henry Wu (B.D. Wong, stesso attore del film originale) e gli commissiona di creare un nuovo dinosauro, un ibrido geneticamente modificato che sia spettacolare e orrorifico: nasce così l'Indominus Rex, la cui “ricetta” però è segreta. Ve n'è un solo esemplare in tutta l'isola ed è ancora rinchiuso nel recinto in cui è nato, in attesa di capire come poterlo controllare: pare infatti che nemmeno i creatori riescano a tenerlo a bada e che il suo istinto e la sua intelligenza siano inaspettatamente più sviluppati del previsto.
La direzione del parco a livello economico e turistico è invece data a Claire Dearing (Bryce Dallas Howard), donna precisa, meticolosa, ossessionata dal lavoro, dai numeri e dalle statistiche, la quale ignora completamente i due nipoti, il sedicenne Zach e l'undicenne Gray, figli di sua sorella; Zach vorrebbe solo starsene in giro a cuccare ragazze, mentre Gray, invasato di dinosauri, scalpita e si trascina il fratello per tutte le attrazioni: le due principali sono la grande vasca con l'enorme carnivoro Mosasauro, e l'altra è la Girosfera, capsule rotanti con cui i turisti possono scorrazzare liberi per tutta l'isola in mezzo ai tranquilli dinosauri erbivori.
A completare le premesse, facciamo la conoscenza di Owen Grady (Chris Pratt), un guardiano che, insieme all'amico Barry (Omar Sy, il nero di Quasi Amici), ha imparato a interagire con i velociraptor grazie ad un rapporto basato sulla fiducia reciproca: gli unici 4 velociraptor del parco, quindi, sono sotto la sua guida e sono (quasi) ammaestrati. Questa è una cosa che fa molto gola a Vic Hoskins, capo della InGen (stessa azienda del primo film) e responsabile della sicurezza dell'intero Jurassic World, il quale vorrebbe usare i velociraptor ammaestrati come armi da rivendere all'esercito per farci un sacco di soldi.



Claire chiama proprio Owen, sua ex fiamma, per controllare il recinto dell'Indominus Rex e assicurarsi che sia sicuro (Masrani non vuole assolutamente che si ripetano gli incidenti del Jurassic Park, motivo per cui anche il T-Rex è ben segregato). Succede però che l'Indominus Rex fugga dalla gabbia usando intelletto e abilità fisiche. Purtroppo nel suo DNA sono presenti geni di raganella e di camaleonte, che lo rendono capace di mimetizzarsi e di sfuggire ai sensori termici; ecco perché i soldati inviati da Hoskins per fermarlo vengono ammazzati tutti. L'Indominus sfugge quindi all'imboscata e punta dritto verso la zona turistica dell'isola, dove attacca proprio i due ragazzini Zach e Gray (che nel frattempo si erano attardati nonostante l'allarme), i quali riescono a sfuggirgli e trovano rifugio nelle strutture abbandonate del vecchio Jurassic Park. Owen e Claire si mettono quindi alla ricerca dei ragazzini e li raggiungono, sfuggendo a loro volta agli attacchi dell'Indominus.
Il proprietario Simon Masrani decide che è giunto il momento di abbattere l'Indominus e sale personalmente sull'elicottero insieme ad altri soldati per bombardarlo. Sfortunatamente, l'Indominus sfonda la voliera dove sono contenuti gli pterodattili, carnivori a loro volta, che vengono quindi liberati: essi abbattono l'elicottero uccidendo Masrani e poi si dirigono verso la zona turistica, iniziando a fare mattanza a tutto spiano fra i visitatori. Hoskins prende quindi il comando e obbliga Owen e il suo amico Barry a usare i loro Velociraptor ammaestrati per uccidere l'Indominus. Owen a malincuore accetta, ma quando i velociraptor trovano l'Indominus, si scopre che questo dentro di sé ha anche geni di velociraptor e quindi i raptor ora ubbidiscono a lui e non più a Owen, e si rivoltano contro gli uomini. 
Viene quindi ordinata una fuga generale dall'isola: non prima di scoprire che il dottor Wu e Hoskins avevano in progetto di creare altri dinosauri per l'esercito. Mentre Wu riesce a scappare con gli embrioni, Hoskins viene fatto fuori dai raptor.
L'Indominus è totalmente incontrollabile e ha ormai devastato il parco; per questo, mentre Owen riesce a riconquistarsi la fiducia dei velociraptor, Claire libera finalmente il T-rex del primo film che, lottando, riesce a spingere l'Indominus vicino alla grande vasca e a farlo mangiare dal Mosasauro.
Owen, Claire e i ragazzini, unici superstiti fra i personaggi principali, si dirigono verso un futuro non ben specificato, mentre nessuno sa che fine ha fatto il dottor Wu, scappato con gli embrioni (cosa che, naturalmente, apre ad un sequel).




Dopo una travagliatissima fase di pre-produzione, in cui Steven Spielberg (produttore) ha affidato la regia a Colin Trevorrow e la sceneggiatura a Rick Jaffa e Amanda Silver (coppia già autrice della nuova serie del Pianeta delle Scimmie), il film ha il suo miglior pregio nel ripescare dal passato: per i fan dell'originale Jurassic Park come me, non mancano i momenti emozionanti: la pellicola è piena di citazioni del primo episodio (il filamento di DNA, gli occhiali “pesanti quindi costosi”, la citazione “non abbiamo badato a spese”, la grande sala dove il T-Rex lottava con i raptor alla fine del primo film, le vecchie jeep, le magliette, l'attacco ai due ragazzini protetti solo da un vetro, lo stesso dottor Wu, il logo del vecchio parco che non viene quasi mai mostrato per intero), ma quando si tratta di costruire da zero la fantasia scarseggia e si limita ad innovare tecnologicamente il parco (ologrammi, pedane idrauliche, girosfera), del quale peraltro si avverte la mancanza di un tour guidato come avvenne invece nel primo film, quando Hammond scortò i suoi ospiti spiegando tutto. Nota positiva: il fatto che i velociraptor si facciano controllare da Owen (cosa molto criticata dopo l'uscita del trailer) è una novità studiata bene e non è inserita forzatamente nel film.




Meno bene invece i personaggi, innanzitutto troppi (era meglio un cast ristretto) e comunque piuttosto sciapi e privi di sfaccettature ed emozioni: Chris Pratt nel ruolo di Owen sembra ancora imprigionato in Starlord di Guardiani della Galassia, sempre macho e irriverente dal primo all'ultimo minuto, non un'esitazione, non un minimo di paura (il dottor Grant del primo film almeno ce l'aveva). Tutti hanno parlato tanto del fatto che Bryce Dallas Howard corre nella giungla per un'ora di film sempre indossando i tacchi, e devo dire che ho capito perché: questo è infatti il principale merito dell'attrice, monocorde come un elenco del telefono (spiacente Ron, tua figlia non sa recitare); i due ragazzini sono inspidi come il pane toscano, e soprattutto tra questi quattro personaggi non c'è un minimo di relazione coinvolgente (giusto due battute sul divorzio dei genitori dei ragazzini, ma niente di che) e soprattutto è fin troppo palese che saranno gli unici a salvarsi, perciò la tensione ne risente e si allenta quand'anche li vedi in pericolo. 
Gli altri personaggi? Bah: Masrani forse è quello che convince un pochino di più, per il resto c'è Wu, inspiegabilmente “malvagio” e Hoskins (Vincent D'Onofrio, sprecatissimo) che non ha sufficiente spessore per essere un vero villain (ad esempio come poteva essere il ciccione del primo film). Sarà anche che le scelte del cast non sono all'altezza (nell'originale c'erano Sam Neill, Laura Dern, Jeff Goldbulm, Richard Attenborough, Samuel L. Jackson, e scusate se è poco), ma c'è anche da dire che secondo me questo cast (esclusa la protagonista, irrecuperabile) avrebbe potuto fare di meglio con un'altra sceneggiatura sotto, più equilibrata con meno sottotrame.



Meglio, comunque, s'è dato più spazio ai dinosauri e in particolare alla computer graphic, che in film come questi è indispensabile e non delude, seppur ancora mostri parzialmente la sua artificiosità. Le nuove musiche, firmate Michael Giacchino (Lost), fanno quasi da contorno, anche perché la gente riconosce soltanto i vecchi temi di John Williams, che quando vengono sparati a mille nelle casse effettivamente danno ancora oggi i brividi. Regia e montaggio danno un ritmo vorticoso al film, che non è mai pesante, anche se risulta meno equilibrato dell'originale (troppe scene calme a inframmezzare le parti di alta tensione). Inoltre la pellicola ha il grandissimo merito di tenere nascosto lui, il T-Rex, fino agli ultimi dieci minuti, quando Claire tira fuori il fumogeno e si fa inseguire come fece Jeff Goldblum nel primo film... e il T-Rex assurge a eroe simbolo della saga e cancella l'Indominus Rex, che verrà presto dimenticato.
Trascuro fotografia e sonoro perché rispecchiano molto il primo film, anche se non perdòno alla nuova troupe di aver omesso la pioggia, che avrebbe aggiunto quella tensione extra che non avrebbe guastato, forse compensando le falle dei personaggi.



Comunque ne risulta un film divertente, si lascia guardare e, per i fan, il vero valore aggiunto è la nostalgia. Jurassic World è un enorme giocattolone con un finale un po' affrettato, ma che nel complesso fa passare in pieno entertainment una serata fra amici. Non memorabile, ma tutto sommato godibile. Il segreto, in questi casi, è abbassare le pretese e lasciarsi incantare.
E' riuscita la mossa da poker, allora? Diciamo piatto diviso, con buona pace di tutti.


Voto finale: 7
(6.5 per i non amanti del primo film)

mercoledì 17 giugno 2015

RGD CLASSICS: Il Padrino (1972)

Era il 1972 quando usciva nelle sale cinematografiche quello che nessuno si sarebbe aspettato come uno dei più grandi punti di riferimento della storia del cinema, nonché un film campione d'incassi: Il Padrino, firmato Francis Ford Coppola.
Genesi difficile, quella del Godfather, pellicola tratta dall'omonimo libro di Mario Puzo. 



La Paramount acquistò i diritti nel 1968, anche se molti all'interno della major erano contrari: La Fratellanza, film di ambientazione simile diretto da Martin Ritt aveva appena fatto fiasco. Molti registi furono contattati: nessuno sembrava interessato: Elia Kazan, Sergio Leone, Costa Gavras, Arthur Penn, un'interminabile sequenza di “no, grazie”. Sam Peckinpah si dichiarò disposto di accettare a patto di trasporre tutta la storia in epoca western; il “no, grazie”, stavolta, arrivò dalla Paramount stessa. Fu Robert Evans, all'epoca CEO della casa di produzione, a decidere per Francis Ford Coppola, per motivi economici: costava poco (paradossi della Storia...)
Tipo deciso, il signor FFC: il film si deve fare a New York e ambientato nel 1946. La Paramount, ovviamente sperava di farlo a St.Louis (per risparmiare sulle locations) e ambientarlo nel 1972 (per evitare di farlo in costume). Ma non solo: FFC voleva Marlon Brando per il ruolo di Don Vito Corleone. La Paramount rifiutò categoricamente; Coppola licenziò i membri della troupe che non volevano Brando, e impose Al Pacino (all'epoca semi-sconosciuto) per interpretare Michael Corleone. La produzione voleva nomi più blasonati: Jack Nicholson, Robert Redford, Dustin Hoffman, e minacciò di licenziare Coppola. Intervenne Brando: “se licenziate lui, me ne vado anche io”. Non bastassero le pressioni interne, arrivarono le pressioni esterne: Frank Sinatra volle a tutti i costi che la sceneggiatura fosse cambiata per far sì che il personaggio del cantante Johnny Fontaine, protetto della famiglia Corleone, non fosse ricondotto a lui. La famiglia Colombo di New York iniziò una campagna per boicottare il film, facendo appello all'orgoglio italo-americano. Il boss e il produttore Albert Ruddy si incontrarono e giunsero all'accordo: la parola “mafia” non sarebbe mai stata pronunciata nel film.



Un film dalla trama molto semplice: Don Vito Corleone è il capo dell'omonima famiglia mafiosa, ma è un uomo d'onore, da rispettare, con un alto senso della famiglia e dei rapporti umani; non ama i business rischiosi, non vuole che la famiglia esageri: delinquere sì, ma non troppo. Forte del suo passato (che sarà raccontato nel sequel del film), ha moltissimi agganci in politica e per questo un'amicizia con Corleone equivale ad una vera garanzia. Eppure, intendiamoci, Don Vito è un criminale, non si scampa: in passato uccise, e non esita a fare uccidere, ma sempre con garbo, con ordine, precisione, pulizia. Gli innocenti devono restarne fuori. Quasi un giustiziere, insomma, un “pezz'e'novanta”, anche se non ama definirsi tale.
Ha quattro figli: Sonny, il primogenito, è focoso e irascibile; vorrebbe che la famiglia fosse più determinata, condivide gli ideali del padre, ma non i metodi; è il primo erede, e la famiglia agirà in modo molto diverso sotto la sua guida, quando sarà il momento. Fredo, secondogenito, è debole e stupido: a lui non si può affidare niente di importante, è un'anima fragile. Michael, terzogenito, è completamente estraneo alla famiglia: è un eroe di guerra, un decorato, e viene volontariamente tenuto fuori da tutti gli affari loschi per mantenere rispettabile il cognome della famiglia. Connie, ultima figlia, è l'oggetto di casa: “fai questo, fai quello”, nella tipica mentalità italiana d'un tempo. Nella famiglia c'è anche Tom Hagen, adottato dai Corleone quand'era bambino, e oggi consigliori privato di Don Vito, lo stratega della famiglia.

Succede che un nuovo boss emergente, Virgil Sollozzo, offre a Don Vito la possibilità di entrare nel giro della droga, in cambio della protezione politica e di un milione di dollari in contanti. Don Vito rifiuta, ma Sollozzo, che non accetta rifiuti ed è protetto dal potentissimo boss Barrese, ha già un piano B: uccide il miglior sicario dei Corleone, e poi prepara un attentato a Don Vito. Questi sopravvive, ma in gravi condizioni. Sonny, focoso come sempre, vorrebbe subito fare vendetta, ma la cosa scatenerebbe una guerra fra i Corleone e le famiglie che appoggiano Sollozzo, soprattutto Barrese. Bisogna fare le cose con calma: inaspettatamente è Michael che, indignato dall'attentato al padre e dalla polizia che sta dalla parte di Sollozzo, propone la vendetta e la esegue personalmente, freddando Sollozzo e il capitano della polizia in un ristorante.


Mentre a New York la guerra fra le famiglie mafiose impazza, Michael, per evitare ritorsioni, si trasferisce in Sicilia, dove si sposa con la giovane Apollonia e vive una vita serena; ma gli echi della guerra mafiosa americana arrivano fin lì: qualcuno cerca di far fuori Michael, e uccide invece la povera Apollonia.
Interviene allora Don Vito, siglando un accordo di pace con tutti i grandi capi delle famiglie mafiose per porre fine una volta per tutte alla guerra. Le altre famiglie, però, Barrese in testa, desiderose di eliminare del tutto i Corleone e prendersi tutti i suoi agganci politici, uccidono Sonny grazie alla complicità del nuovo marito di Connie, Carlo.
È troppo per tutti, ora. Michael diventa quindi il capo della famiglia e, dopo la morte per anzianità di Don Vito, insieme al fratellastro Tom Hagen organizza la controvendetta: durante il battesimo del figlio di Connie, Michael fa uccidere tutti i capi di tutte le famiglie mafiose, Barrese incluso, e anche lo stesso marito di Connie, traditore, e diventa il boss più potente di tutta l'America, preparandosi a trasferire tutte le sue attività nel Nevada.
Da anima candida a spietato boss mafioso: questa è la parabola di Michael Corleone, il nuovo Padrino.



Il film incassò oltre 144 milioni di dollari in tutto il mondo fra il 1972 e il 1973, di cui 86 milioni in patria. Fu una sorpresa totale per la produzione, che mai si aspettava un simile esito. Eppure è difficile trovare difetti in questo vero capolavoro del cinema, vincitore (fra i numerosi premi) di ben 3 Oscar (miglior film, miglior sceneggiatura non originale e miglior attore a Marlon Brando - che rifiutò per protesta contro i metodi di Hollywood nei confronti dei nativi americani, mandando una squaw a ritirarlo al posto suo), 5 Golden Globe (film, regia, attore, sceneggiatura e colonna sonora) e 1 BAFTA (colonna sonora).
La sceneggiatura è infatti un vero capolavoro di equilibri che ruotano intorno ai due protagonisti, Vito e Michael: da un lato il declino di Vito, negli ultimi mesi della sua guida, dall'altro l'ascesa di Michael, un'ascesa che contemporaneamente rappresenta una discesa verso un mondo deplorevole dal quale era sempre stato tenuto fuori (toccante la scena in cui Vito confessa al figlio i suoi rimpianti: “non volevo che toccasse a te”). Una sceneggiatura che rappresenta un passaggio di consegne e offre un incredibile ritratto dell'America post-bellica, in cui sul suolo non toccato dal conflitto in realtà le tensioni sono altissime, le famiglie criminali si dividono i profitti e le zone del territorio e la lealtà è basata solo sul denaro.



I personaggi della famiglia Corleone sono magistralmente interpretati dal cast, ognuno perfetto nel suo ruolo: Robert Duvall nei panni del pacato e riflessivo Tom Hagen, James Caan come focoso Sonny, teso come un fascio di nervi, Diane Keaton nei panni di Key, la fidanzata (e poi moglie) di Michael, così debole da dar fastidio (ed è positivo!), per non parlare dei due protagonisti, due mostri sacri come Pacino e Brando, il primo meraviglioso nel suo percorso verso la crudeltà (e si lamentò di essere stato accreditato solo come co-protagonista), il secondo magistrale nell'inventare un personaggio molto più vecchio di lui, più grasso e sofferente, con il famoso trucco del cotone in bocca per sembrare ancora più autorevole. E tutti i personaggi “di contorno” sono appropriatissimi e spietati: Luca Brasi, Clemenza, Tessio, Carlo, Sollozzo, il poliziotto McCluskey.

Il film riflette perfettamente la società italo-americana dell'epoca, un club di soli uomini in cui armi e denaro determinano tutto: i ruoli femminili stanno a lato, come matrone o puttane, donne di casa o donne da strada, non c'è via di mezzo. E tutta l'ideologia che sta dietro a questo mondo è così complessa e sfaccettata che viene rappresentata indirettamente, attraverso dialoghi e inquadrature. Merito anche di una sublime fotografia firmata Gordon Willis, scandalosamente dimenticata da tutti i premi più importanti, con i neri molto carichi e i gialli spinti (il piano sequenza in apertura è addirittura iconico). Inquadrature scandite bene da un appropriato montaggio, che lascia prevalere emozioni e sentimenti, grazie ad una regia che non risparmia cruda violenza (teste di cavallo mozzate, strangolamenti, sparatorie con gente crivellata, fiumi di sangue, violenze domestiche, pestaggi) e che sfrutta il ritmo lento e calmo per creare giusta tensione e momenti di riflessione.
La colonna sonora firmata Nino Rota è diventata un must, e chiunque riconosce immediatamente quelle splendide note, e le può associare al logo del film, il famoso pupo siciliano a indicare che tutti, alla fine, sono nelle mani di qualcun altro.



Un capolavoro imperdibile, questo film, che ad ogni visione successiva alla prima consente di scoprire nuovi dettagli e sfumature, di soffermarsi sui molti livelli interpretativi e di apprezzare ogni volta aspetti diversi, tecnici e non. Pietra miliare del cinema, ha ispirato molti autori e affrontato ardue prove per conquistarsi il suo spazio nell'Olimpo.
Meritatamente, non c'è che dire.



Voto finale: 9.5

domenica 14 giugno 2015

RGD: Youth - La Giovinezza

Lo so, lo so, e avete ragione. Sono mancato all'appello con le mie recensioni per qualche mese, e chiedo scusa, ma chi ha seguito un po' la mia pagina Facebook sa che sono stato impegnato con il Festival di Cannes, perciò da un lato ho visto troppi film per recensirli tutti, dall'altra non ho avuto il tempo materiale di farlo.
Ma uno lo devo recensire, ora. Sono giorni che ci penso: lo faccio o non lo faccio? Ho deciso di vuotare il sacco a seguito dei molti dibattiti e delle semplici chiacchierate che ho affrontato in merito. Il film in questione è Youth – La Giovinezza di Paolo Sorrentino.
Ho visto questo film due volte: la prima è stata proprio al Festival di Cannes, dove sapete che il film era in concorso per la Palma d'Oro (poi vinta dal transalpino Audard col suoDeephan). Vestito di tutto punto, ho assistito alla proiezione di Youth in lingua originale (inglese) con sottotitoli in francese, nel meraviglioso Grand Theatre Lumiére, una delle sale più belle d'Europa per qualità audio-video. La seconda volta è stata tre sere fa, nel mio cinema di fiducia di Paderno Dugnano, nella versione in lingua italiana. Ebbene, reggetevi forte: il film mi è piaciuto entrambe le volte.




Aaaaahhh! Sacrilegio! Filmaccio kitsch, pieno di stereotipi, lento come la morte, felliniano oltre misura, retorico, fastidioso...” ragazzi, oggettivamente, io vi voglio bene, ma voi... che film avete guardato? Stiamo parlando veramente della stessa pellicola?
Andiamo con ordine e riassumiamo brevemente la trama. “Ma il film non ha una trama!” e invece ce l'ha, una trama: non è che siccome la sceneggiatura non è divisa in tre atti alla maniera americana e gli indizi non vi vengono dati uno dopo l'altro come biada ai cavalli, allora non esiste una trama. Il film racconta la vecchiaia di Fred Ballinger (Michael Caine, un po' compassato e molto meglio in lingua originale), compositore di successo e in passato amico anche di Stravinski, ormai ritiratosi dalla vita musicale e, probabilmente, dalla vita in generale. Fred sta trascorrendo l'estate in un lussuoso albergo con spa e centro benessere fra le alpi svizzere, circondato da persone di tutte le età (ma soprattutto anziani) che si aggirano silenziose fra le stanze, le saune e i giardini lottando come anime in pena per sfuggire al tempo che avanza inesorabilmente. A sua volta Fred pare affetto da una forma di apatia derivata dal continuo pensare ai sogni (ormai pochi) e ai ricordi (molti, con altrettanti dimenticati per via dell'età); la vecchiaia spinge Fred ad isolarsi e a rinchiudersi dentro se stesso; è inoltre crucciato perché viene ricordato solo per aver composto le Canzoni Semplici, la sua unica tentazione alla “musica leggera” in una carriera di grandi successi intellettuali.
Ecco perché rifiuta categoricamente di dirigere per un'ultima volta l'orchestra della BBC davanti alla Regina Elisabetta, la quale desidera proprio che vengano eseguite le Canzoni Semplici come regalo per il consorte, il Principe Filippo. Un duro scontro verbale con la figlia Leda (Rachel Weisz, in gran forma e davvero strepitosa nel suo monologo centrale) lo costringe a confessare che quelle Canzoni Semplici sono state scritte perché solo la moglie di Fred potesse cantarle, per ricordare il loro amore nonostante la vita di sofferenze e tribolazioni che Fred ha fatto passare alla sua famiglia quando era più giovane (arrivando a tradire la moglie anche con uomini): ecco perché non intende dirigerle davanti alla Regina.
Nel frattempo, Leda viene lasciata dal marito Julian, che la scarica per fidanzarsi con una anonima popstar. A cercare un rimedio per la situazione, purtroppo invano, è il padre di Julian, Mick Boyle (eccezionale Harvey Keitel), nonché migliore amico di Fred. Mick è stato un regista di grandissimo successo e talento e ora è in ritiro con la sua equipe di giovani sceneggiatori proprio nello stesso albergo di Fred: Mick sta scrivendo “L'ultimo giorno della vita”, un film che considera eccezionale, il suo vero e proprio testamento artistico, e che intende a tutti i costi fare interpretare a Brenda Morel (Jane Fonda, maleficamente tosta), un'attrice sulla settantina che ha già fatto 11 film insieme a Mick. La vecchiaia su Mick genera l'effetto opposto che su Fred: Mick non si rassegna al passare del tempo, non riesce a stare senza fare niente, è iperattivo, ha energia, ha voglia di vivere. Purtroppo è la stessa Brenda a fargliela passare, in un dialogo di rara cattiveria fra due anziani che si vuotano il sacco di anni di parole non dette. Brenda rinuncia al film preferendo fare una serie tv, Mick non regge il colpo e si suicida.
È quindi la morte di Mick a scuotere Fred e a spingerlo a tornare sui suoi passi e decidere di accettare l'offerta della Regina: scopriamo che la moglie di Fred non è morta come invece si credeva, ma che è gravemente malata, e assistiamo infine al concerto diretto da Fred, al cui termine non ci sono applausi, ma solo l'immagine del ricordo di Mick, silenzioso, che guarda Fred mimando un binocolo: come aveva detto in precedenza durante il film, la giovinezza, da anziani, appare sempre così lontana.



Prima di intraprendere l'analisi, è doveroso che io sottolinei dov'è che tutta la critica ha sbagliato. Il film non parla della vecchiaia, signore e signori, il film parla della giovinezza(e sì che il titolo è abbastanza eloquente, eh...) Tutti i critici a dire che la pellicola affronta il tema della vecchiaia, che banalizza la vecchiaia, che rappresenta male come si invecchia.... cari signori, al centro del film c'è la giovinezza, come la vive chi la vive ancora, e come la ricorda chi l'ha vissuta. Tutti i personaggi che alloggiano nell'albergo sono anime in pena che si muovono come in un purgatorio perpetuo cercando di preservare il corpo nella giovinezza, è la giovinezza che diventa simbolo di una lotta infernale (quelle saune sono veri e propri gironi dell'inferno da Divina Commedia), quelle sono delle “non-persone” perché il messaggio vero, di fondo, è che tu sei qualcuno solo da giovane.
È da questo presupposto che bisogna partire ad analizzare i due protagonisti, Fred e Mick. Fred è uno che la pensa proprio così, che si è annullato, rinchiuso in se stesso, “dimenticatemi” dice ai francesi che vogliono scrivere un libro sulle sue memorie: svanita la giovinezza, svanisce la persona, così come svaniscono i ricordi. Mick, invece, non si rassegna a questa cosa, lui vuole disperatamente "essere" anche da vecchio, e quando sono altri che glielo impediscono, allora fallisce e crolla, e si toglie la vita. QUESTO è il messaggio di Sorrentino: tutto ruota intorno alla giovinezza, altro che vecchiaia e vecchiaia.



La giovinezza è alla base di tutti i personaggi di contorno, che sono tanti, e sono tutti meravigliosi: in primis il giovane attore Jimmy Tree (Paul Dano, in gamba), anche lui affetto dal problema di Fred, viene ricordato solo per aver interpretato un robot e nessuno si ricorda dei suoi grandissimi ruoli: lui vive la giovinezza e studia chi non ce l'ha più per interpretare Hitler nel suo prossimo film, e cosa dice alla fine? “Ho dovuto scegliere. Dovevo scegliere se interpretare l'orrore di Hitler, o il desiderio di Hitler. E guardando voi anziani ho scelto il desiderio”, ovvero il desiderio della giovinezza.
Ma anche tutti gli altri personaggi rappresentano la giovinezza: Miss Universo (Madalina Ghenea), nuda e splendente come una dea, è la giovinezza della passione; la coppia di anziani che non parlano mai al ristorante è la fine (o quasi) di quella stessa passione; la giovane massaggiatrice è la giovinezza che esplode al suo massimo, quando balla davanti ai videogiochi e non teme di toccare le altre persone, all'opposto della ragazzina prostituta che squallidamente ogni notte si vende ai vecchi dell'albergo accompagnata dalla madre: ecco, lei è la giovinezza negata; e poi c'è un disgustoso e invecchiato Maradona con Marx tatuato sulla schiena che vive nel ricordo della giovinezza del benessere fisico, all'opposto di Brenda Morel, l'attrice preferita di Mick, che la giovinezza la mantiene davvero, nonostante gli anni che passano: lei è e sarà sempre Brenda Morel, non esiste vecchiaia che le porterà via questa cosa.



La sceneggiatura e la regia, entrambe firmate Sorrentino, hanno sì delle pecche: alcune scene sono effettivamente kitsch (la direzione d'orchestra delle mucche, Maradona che palleggia con la pallina da tennis, il videoclip immaginario della popstar) e alcune inquadrature sono ai limiti del fastidioso (le lunghe passeggiate a inquadratura larga con il teleobiettivo, ad esempio), ma devo dire che del tutto inaspettatamente si ride molto nella prima parte, si pensa altrettanto nella seconda, e perfino il montaggio è meno statico del previsto, seppure i ritmi siano tipicamente sorrentiniani (leggi: lenti). Alcuni passaggi, però, è innegabile, sono emozionanti (Fred che si immagina la moglie malata che canta nel finale, ad esempio, o il suicidio di Mick davanti agli occhi di Fred, così a freddo che non te l'aspetti).
Ci sono forse troppe battute “didascaliche”, che vogliono dare a tutti i costi una morale e che appesantiscono alcune scene, troppi nudi integrali (di ambo i sessi) che nonostante la scusa del “nudo artistico” dopo un po' faticano a trovare un senso, ma la fotografia è spettacolare, ogni immagine è un quadro: c'è Fellini dietro, sì, ma c'è soprattutto Luca Bigazzi (direttore della fotografia) che approfitta alla grande delle spettacolari location svizzere, ma allo stesso tempo ben sa come si piazzano le luci negli interni e sa quando far muovere la macchina da presa. Le musiche sono decisamente appropriate e danno il giusto ritmo al film: iniziano subito con il piglio vivace della canzone di inizio pellicola, allegra e ritmata, e chiudono con la malinconia delle Canzoni Semplici di Fred cantate dalla soprano Sumi Jo (che interpreta se stessa), ma del resto la vita è così anche nella musica: all'inizio, nella giovinezza, si alzano i ritmi, man mano che si va avanti aumentano i pensieri, diminuiscono le risate, rallentano i ritmi, e la musica si fa malinconica come i ricordi.



In definitiva, una bella opera davvero. La critica dovrebbe imparare a distinguere le opere dagli autori e analizzare ogni film per quello che è, senza tirarsi dietro gli strascichi dell'autore (l'astio per l'immeritato Oscar a "La Grande Bellezza" è stato qui ampiamente sfogato).
Se l'avessi fatto io questo film, sarei forse stato dipinto come una piccola rivelazione italiana; invece Sorrentino è Sorrentino, ma io dico “chissenefrega”. Ho odiato “Il Divo”, “L'amico di famiglia”, “La Grande Bellezza”, tutti sopravvalutati. 
Ma QUESTO film è oggettivamente bello. E capisco che possa non piacere, per carità, ma ero al Festival di Cannes quando la stampa l'ha sommerso con fischi che coprivano gli altrettanti applausi.
Se questo film merita dei fischi, voi vi meritate i cinepanettoni.


Voto finale: 8.5

RGD: Unbroken

Normalmente inizio le mie recensioni dando qualche informazione di servizio sulla pellicola e un giudizio sintetico, prima di passare all'analisi completa. Stavolta, invece, comincio da un'opinione che ho maturato uscendo dalla sala. La prima cosa che mi è venuta in mente è stata: che fotografia!
Distratto dai molti impegni di questi giorni, scordavo che è del maestro Roger Deakins, che con Unbroken è alla dodicesima nomination all'Oscar in carriera - questa potrebbe essere la volta buona. Angelina Jolie non poteva fare scelta più saggia che affidare la fotografia del suo secondo lungometraggio da regista a un veterano di gran calibro come Deakins; il buon Roger ha fatto i salti mortali, infatti, per nascondere e compensare il vuoto totale di idee registiche dell'attrice (che nel film, però, non appare), la quale tuttavia ha avuto il coraggio di misurarsi con un'opera estremamente ambiziosa, di enorme portata realizzativa e basata su una non facile sceneggiatura (nemmeno troppo perfetta) dei fratelli Coen. 




Il film racconta la storia vera dell'italo-americano Louie Zamperini. Bambino sregolato e scostumato (fuma, beve e guarda sotto le gonne delle ragazze), Louie viene raddrizzato dal fratello Pete che insiste affinché egli sviluppi il suo talento per la corsa. E Louie lo sviluppa talmente bene che batte parecchi record e partecipa perfino alle storiche Olimpiadi di Berlino del 1936, quelle in cui il nero Jesse Owens vinse quattro ori in faccia a Hitler, stabilendo il record sul giro veloce in pista. Ma questi sono solo flashback: la realtà è molto più drammatica. Louie e due commilitoni, infatti, sono gli unici tre superstiti di un ammaraggio e sono bloccati senza cibo né acqua in balia delle onde su due piccoli gommoni. Vi rimarranno per 45 giorni, uccidendo pesci e gabbiani per sfamarsi e bevendo solo acqua piovana, nella costante paura di non essere divorati dagli squali. Uno di loro, Mac, non ce la fa e muore poco prima che Louie e Phillips (l'altro soldato) vengano catturati dai giapponesi e, dopo qualche mese di prigionia nella giungla, vengano portati a Tokyo e separati.



Louie, già allo stremo, viene rinchiuso in un campo di prigionia gestito dallo spietato caporale Watanabe, soprannominato l'Uccello anche per via del bastone di bambù con cui suole picchiare duramente i prigionieri. Watanabe prende di mira Louie per il suo carattere che non si spezza ("Unbroken", per l'appunto) e ogni occasione è buona per farlo riempire di botte. Il suo unico atto di clemenza è quello di mandarlo a parlare ad una radio giapponese e far sapere alla famiglia in America che è ancora vivo: quando però Louie rifiuta di diventare un traditore e collaborare coi giapponesi, Watanabe lo fa picchiare da ognuno dei suoi compagni di prigionia. 
Quando Watanabe viene trasferito, Louie e gli altri prigionieri apprendono che gli americani stanno per vincere la guerra e vengono spostati in una miniera di carbone, finendo nuovamente sotto il comando di Watanabe. Qui Louie affronta la prova più dura e umilia pubblicamente Watanabe dimostrando di non cedere di fronte alle sue violenze e torture. 
La guerra improvvisamente finisce: Louie e i compagni vengono liberati. Il film si conclude con il ritorno a casa e con le foto del vero Louie Zamperini, scomparso nel 2014 dopo aver corso qualche anno prima la maratona alle Olimpiadi di Tokyo, all'età di 80 anni.



Roger Deakins sforna immagini meravigliose una dopo l'altra, ma purtroppo per lui la regiadi Angelina Jolie si limita a questo: a metterle in sequenza. L'inesperienza dietro la macchina da presa dell'attrice traspare nel momento in cui si comincia a capire che ogni inquadratura è posizionata in quel determinato punto del film solo perché "è bella" e non perché "sta raccontando con un punto di vista particolare ciò che mostra, enfatizzando il significato del contenuto narrativo" (un concetto sottile da capire, non so se mi spiego: ogni inquadratura dovrebbe essere funzionale al racconto e non pura estetica). 
Il gran mestiere di Roger Deakins tappa le falle e cerca di fare da collante alla narrazione per immagini, ma purtroppo temo che mi siano venuti in mente almeno una decina di film da cui la regia di Unbroken scopiazza clamorosamente: Forrest Gump, Platoon, Nato il 4 di luglio, Il Cacciatore, Changeling, Django Unchained (se avete visto il film, vi verranno sicuramente in mente le scene a cui mi riferisco quando cito questi film).

C'è poi qualcosa di più spiacevole ancora, ed è determinato dalle pecche dellasceneggiatura, che vuole fare di Louie un martire (e può anche starmi bene) limitando purtroppo il suo soffrire soltanto alle violenze fisiche che subisce, una specie di The Passion di Mel Gibson (tanto per citare un altro film...) in cui ho sempre l'idea che se il protagonista smettesse di prendere botte (molte volte del tutto gratuite), tutto sommato non starebbe poi così male (forse solo nella miniera di carbone la sofferenza diventa autentica, ma anche lì è più che altro uno stremo fisico).
Manca invece la sofferenza dell'essere lontano da casa, manca il pathos, manca il legame affettivo, manca l'empatia: quest'uomo non ha conflitti interiori; va bene che è l'Unbroken, colui che non si spezza, ma accidenti!
La crudezza delle violenze ricorda 12 anni schiavo (tanto per citare un altro film...), ma non si piange mai, forse anche perché l'attore protagonista Jack O'Connell non convince del tutto (più bravo nella parte in mare che in quella nei campi di prigionia). Inoltre, è assai fuori luogo la scena politicamente corretta in cui vengono mostrate brevemente le sofferenze patite dai giapponesi sotto i bombardamenti americani: se stai facendo un film che vuole concentrarsi sulle atrocità giapponesi verso gli americani, vai fino in fondo, abbi il coraggio di insistere senza dimostrare che in guerra tutti sono cattivi, altrimenti snaturi e indebolisci quanto hai appena creato, a maggior ragione se il film è tutto protagonista-centrico.




Tuttavia il film non è affatto un disastro. Al contrario, ho enormemente apprezzato la maestosità dell'opera, la cui varietà di scenografie e soprattutto di location è davvero notevole, un continuo cambiamento di scenari che a volte frastorna, al punto che l'intera sequenza (oltre mezz'ora) di Louie e gli altri due sperduti in mare sembra nettamente separata dal resto (anche se ruba idee da All is Lost, tanto per citare un altro film...); tuttavia colpisce e ammalia, anche grazie all'ottimo lavoro del reparto tecnico (make-up, costumi, effetti speciali, colonna sonora, montaggio, audio e montaggio sonoro - questi ultimi nominati ai prossimi Oscar). 

Si respira una certa aria di "quasi riuscito" intorno a questa pellicola, che per fare un paragone calcistico sembra il Real Madrid allenato dallo zio Pino. Tuttavia voglio premiare Angelina Jolie per il coraggio dimostrato nel volersi cimentare in un film così impegnativo e per essere riuscita a veicolare bene il messaggio che durante la guerra le persone vengono "spersonalizzate" (centinaia sono i volti delle comparse, tutti davvero uguali uno all'altro, si fa fatica a riconoscerli).
Se Deakins saprà (e soprattutto vorrà) aiutare Angelina a diventare una brava regista, il terreno è fertile. C'è da lavorare parecchio, però, magari la prossima volta affrontando una sceneggiatura di proporzioni ridotte per farsi le ossa e imparare a padroneggiare meglio la macchina da presa a livello concettuale più che pratico, e soprattutto senza scopiazzare dai sacchi di farina altrui.


Voto finale: 6.5
(con mille grazie a Roger Deakins, grazie davvero)

RGD: Il Nome del Figlio

Il cinema italiano fatto bene non ha mai smesso di esistere; purtroppo è sempre più difficile da trovare, sommerso dalle mega-produzioni hollywoodiane, dai film di cartello, da alcuni capolavori esteri e dal cinema nostrano di scarsa (o assente) qualità. Quando lo trovi, però, è come una boccata d'aria fresca. E' questo il caso di Il nome del figlio, ultima opera di Francesca Archibugi, anche sceneggiatrice (insieme a Francesco Piccolo) oltre che regista. Prodotta dall'indipendente Motorino Amaranto con la collaborazione di Rai Cinema e Sky Cinema HD, la pellicola è tratta dall'opera teatrale francese Le Prénom di Alexandre de la Patelliére e Matthieu Delaporte, ed è il remake italiano e italianizzato del film transalpino Cena fra amici




Il film, interamente ambientato in una bella e signorile casa romana situata però in un quartiere "povero" accanto alla ferrovia, racconta della cena che riunisce un gruppo di amici imparentati fra loro. I padroni di casa, Betta e Sandro, si conoscono da quando sono ragazzini: lei ora è una casalinga tuttofare in cerca di un lavoro come insegnante di ruolo e costantemente alle prese con i due figli nati dalla coppia, Pin e Scintilla (nomi decisamente fuori dal comune), lui invece è un professore universitario di sinistra, serioso e maniaco di Twitter, amante della cultura intesa nel suo senso più alto, ma sempre più assente dalle dinamiche familiari; probabilmente lui deve tutto alla famiglia di lei, i Pontecorvo, famosa famiglia ebrea di Roma: l'ingerenza dello scomparso padre Emanuele Pontecorvo, eroe della Resistenza, non ha mai smesso di far sentire il suo peso. 
A cena sono invitati anche Paolo e Simona: Paolo è il fratello di Betta (un Pontecorvo anche lui), agente immobiliare per appartamenti di lusso, imprenditore moderno, tutta apparenza niente sostanza, amante degli scherzi pesanti (anche pesantissimi), egocentrico e un po' superficiale; Simona, sua moglie, è autrice del nuovo bestseller italiano, una specie di "50 sfumature di grigio", del quale però ha scritto solo pochi capitoli; è affascinante, burina, ignorante, ma di buoni sentimenti. Quinto e ultimo commensale è Claudio, storico amico di famiglia, single incallito, musicista, ha dedicato la sua vita alla musica, si veste come Lucio Dalla, ama i profumi, gli incensi e vive di arte. 
Fra i cinque, però, ci sono moltissime tensioni: Betta ha una specie di amante, ma solo Claudio lo sa; Sandro è geloso del successo di Simona, Claudio nasconde un imbarazzante segreto a tutti, Paolo pensa che Claudio sia gay. Tutto questo resta nascosto finché a Paolo non viene l'idea di uno scherzo esagerato: il figlio che lui e Simona aspettano si chiamerà Benito. E' la goccia che fa traboccare il vaso: da scherzo a dramma familiare il passo è breve, e inizia una girandola di scene divertenti e drammatiche in cui tutti vuotano il sacco su tutto, e la cena diventa al veleno: soltanto la nascita del bambino (che poi è una bambina!) e l'amicizia decennale impediranno la rottura di ogni rapporto e il ripristinarsi degli affetti. 




Il film della Archibugi è il frutto di una brillante sceneggiatura, in particolare dei suoidialoghi: ritmi serratissimi, parole a fiume, personaggi perfetti, colpi di scena al momento giusto, una corretta gestione dei climax; forse la pecca della scrittura sta nel non essere mai troppo comica, né troppo drammatica (una specie di aurea mediocritas che a tratti sarebbe stato meglio superare). Il montaggio e la regia dettano il tempo, veramente ben studiati per ritmo e inquadrature (svolgendosi tutto in un grande salone, il rischio di tramutare la storia in un mattone era grosso): la Archibugi osa e sforna un paio di piani sequenza degni dei grandi maestri (la scena della litigata nel cortiletto e il triplo giro intorno al tavolo durante una chiacchierata), e introduce l'uso del drone come standard per le inquadrature esterne e soprattutto interne, sfruttando l'escamotage di un elicotterino telecomandato da Pin e Scintilla. 
Le battute non scadono mai nel volgare e i dialoghi spaziano dalla letteratura alla politica, dai rapporti umani alla filosofia, mescolando cultura popolare moderna (la ginnastica domestica) e grandi mostri della narrativa (Melville su tutti): ci vuole Cultura per cogliere ogni parola appieno, il pubblico dei cinepanettoni si perderebbe 3/4 delle battute. 





Eccellente prova delle maestranze tecniche (oltre alla regia e al montaggio, la fotografiasforna dei bei colori caldi, facendosi ampiamente perdonare l'imperdonabile fuori fuoco nell'inquadratura aerea iniziale, e l'audio in presa diretta non presenta difetti rilevanti), ma soprattutto ottimo lavoro del cast; ogni attore è azzeccatissimo per la sua parte: Alessandro Gassmann è un Paolo perfetto, Valeria Golino non si sottrae all'avanzare degli anni interpretando la sofferente Betta, Luigi Lo Cascio dà il meglio di sé nel ruolo dell'intellettualoide come Sandro, Micaela Ramazzotti per fare la burina sembra esserci nata (e in questo caso è un pregio), e finalmente una grande prova di Rocco Papaleo, che si schioda di dosso il ruolo di comico meridionale e dà vita ad un Claudio intelligente, acculturato e in alcuni punti sinceramente emotivo (finalmente vediamo anche le corde drammatiche dell'attore). Nota dolente, le colonne sonore: a volte troppo alte di volume e piuttosto fastidiose nelle scene iniziali. 



Si esce dalla sala rinfrancati dopo la visione del film: anche se l'idea è francese, il film è 100% italiano e rincuora sapere che esiste ancora chi sa fare cinema nel nostro Paese. 90 minuti che scivolano via veloci, creando un bell'equilibrio nel rompere gli equilibri dei personaggi; mancano davvero solo i due estremi (la battuta memorabile e la lacrima sincera), e qualche finezza qua e là, ma in quei cinque personaggi c'è il ritratto di ogni famiglia italiana, e questo basta.
Consigliato.


Voto finale: 7.5

RGD: La Teoria del Tutto

Recentemente notavo come quest'anno la battaglia per l'Oscar per il miglior attore protagonista sia una sfida a due fra uomini che interpretano geni della scienza, e nello specifico il Benedict Cumberbatch/Alan Turing di The Imitation Game (già recensito) e l'Eddie Redmayne/Stephen Hawking di La Teoria del Tutto. La volta scorsa davo per scontata la vittoria di Cumberbatch, anche perché Redmayne è fresco di Golden Globe... eppure probabilmente mi sbagliavo, perché il giovane londinese ha dato prova di meritarsi ampiamente l'incredibile doppietta, regalando al bel film di James March (autore di pregevoli documentari come Man on Wire e Project Nim) un enorme valore aggiunto. Piccola curiosità: se vincesse davvero l'Oscar, un certo riconoscimento al rivale Cumberbatch dovrebbe conferirlo, dal momento che fu proprio Cumberbatch a interpretare Stephen Hawking in un film inglese per la tv nel 2004. 

 


La Teoria del Tutto è il motore che muove e ispira la sfortunata vita del geniale cosmologo e astrofisico di Oxford, è l'equazione unica ed elegante che spiega in un colpo solo tutto ciò che c'è da sapere sull'Universo; un'equazione che Stephen Hawking cercherà per tutta la vita, una vita che nel film viene ripercorsa dal 1963 (anno della sua iscrizione all'Univeristà di Cambridge) al 1988 (data di pubblicazione del suo libro più famoso, "Breve storia del tempo"), 25 anni in cui seguiamo però fondamentalmente la vita privata dello scienziato (il film è infatti tratto dalla biografia della ex moglie, Jane Hawking). 
La pellicola prende quindi il via dalla sera in cui Stephen, ancora giovane e apparentemente sano, conosce Jane, una fervente religiosa studentessa di lettere straniere, così diversa da lui eppure così compatibile. Fra i due nasce un forte amore, e la carriera accademica di Stephen sembra procedere a gonfie vele, soprattutto dopo lo sviluppo degli studi sull'origine dell'Universo ispirati dalle teorie del matematico Roger Penrose. Tuttavia a Stephen viene diagnosticata una grave forma di atrofia muscolare progressiva, detta malattia del motoneurone: il suo cervello perderà irrimediabilmente il controllo di tutti i muscoli volontari con l'andare del tempo, e la sua aspettativa di vita (così gli dicono) sarà di appena 2 anni. 
L'amore di Jane, però, è più grande e contro il parere di tutti i due si sposano e hanno tre figli (le funzioni sessuali di Stephen, così come quelle cerebrali, non sono intaccate); la malattia dello scienziato non gli accorcia la vita (oggi ha 72 anni), ma i rapporti familiari sono sempre più compromessi: per fortuna c'è il giovane Jonathan, direttore del coro della chiesa e vedovo, che accetta di aiutare Jane nella gestione del marito e dei bambini. Fra Jane e Jonathan nasce un sentimento che Stephen coglie e comprende, ma il sacrificio di Jane verso il marito diventa totale quando, dopo un malore, allo scienziato viene effettuata una tracheotomia che gli toglie anche l'uso della parola. I computer permettono a Stephen di parlare e gli ridanno nuova forza: pubblica quindi il libro "Breve storia del tempo" e diventa sempre più famoso a livello globale per le sue teorie scientifiche rivoluzionarie; perderà tuttavia Jane per sua scelta, preferendole la nuova infermiera, con la quale si sposerà. Stephen e Jane (risposatasi con Jonathan) rimangono amici ancora oggi. 




Il titolo potrebbe essere fuorviante: delle teorie scientifiche di Hawking c'è ben poco nel film, esse vengono lasciate dalla sceneggiatura in secondo piano, in sottofondo, non sono il centro della narrazione. Piuttosto la Teoria del Tutto è da ricercare nei rapporti umani e nell'amore; meravigliosa la scena finale che ripercorre a ritroso tutto il film grazie ad un ottimo montaggio, ritornando al punto di partenza; e così, come tornando indietro nel tempo si risale all'origine dell'Universo, tornando indietro nella propria vita si risale all'origine del Tutto: il momento in cui nasce l'amore fra due persone. 



Ci si commuove molto nel film di James March, la cui regia offre scene intense che sono veri propri punti fermi del film (la scena in cui Hawking si siede sulla sedia a rotelle da cui non lo vedremo alzarsi mai più, o la scena della separazione fra Stephen e Jane) e sfrutta ampiamente (e saggiamente) i dettagli e i primi e primissimi piani, enfatizzando gli occhi e le emozioni dei personaggi. E' così che riusciamo ad apprezzare il magistrale sforzo interpretativo di Eddie Redmayne: una cura del particolare, dei movimenti del proprio corpo e di ogni singolo muscolo così precisa e accurata non si vedeva dai tempi di Rain Man con Dustin Hoffman; Redmayne è talmente realistico (e ben truccato, complimenti al reparto make-up) che per lunghi tratti ci si dimentica che stiamo guardando un attore; a volte sono le dita, altre volte le palpebre, e poi la bocca che articola sempre meno le parole, e quegli occhi che parlano anche quando Hawking non può parlare più: epico. Talmente epico da oscurare l'ottima performance di Felicity Jones nel ruolo di Jane (anche lei nominata all'Oscar, anche se si ispira molto alla Jennifer Connelly di A Beautiful Mind, guarda caso vincitrice di Oscar), una donna forte, che dà tutta se stessa, che affronta difficoltà, pregiudizi, malelingue, e sacrifica le proprie passioni per amore di Stephen, e che non riesce a smettere di sentirsi in colpa per i sentimenti che prova per Jonathan (Charlie Cox, bravo a sua volta) nonostante il marito la comprenda. Difficile scegliere la scena meglio interpretata, ma direi che decisamente emozionante è quella in cui Stephen rinuncia a usare la tavoletta con le lettere e preferisce scandire col labiale "I love you" alla moglie, nonostante lei abbia appena autorizzato la tracheotomia che gli ha tolto l'uso della parola.
La colonna sonora di Johann Johansson (registrata nei mitici studi di Abbey Road) dà il suo enorme contributo, con temi bellissimi ed eccezionalmente appropriati (giusta nomination all'Oscar). 



Certo, il film non è esente da alcune pecche grossolane che impediscono di sfornare il capolavoro: pecche narrative (la scena della conferenza stampa è eccessivamente retorica e sembra voler inserire a tutti i costi le citazioni più famose di Hawking), stilistiche (le spiegazioni scientifiche ridotte a paragoni con la verdura mi sembra un eccesso gratuito) e soprattutto tecniche (continue inquadrature sottofuoco, e in generale una fotografia non particolarmente memorabile).

Tuttavia il coraggio di realizzare un biopic su un personaggio ancora in vita va apprezzato, in particolare per il messaggio che vuole lanciare: alla fine, la Teoria del Tutto è che l'Universo è una cosa sola, una singola particella elementare, e quindi anche noi e i nostri sentimenti lo siamo. Il cosmo è nei nostri cuori. 


Voto finale: 8.5
(ma senza Eddie Redmayne era un 7.5)