Era il 1972 quando usciva nelle sale
cinematografiche quello che nessuno si sarebbe aspettato come uno dei più grandi punti di riferimento della storia del
cinema, nonché un film campione d'incassi: Il Padrino,
firmato Francis Ford Coppola.
Genesi
difficile, quella del Godfather,
pellicola tratta dall'omonimo libro di Mario Puzo.
La Paramount
acquistò i diritti nel 1968, anche se molti all'interno della major
erano contrari: La
Fratellanza,
film di ambientazione simile diretto da Martin Ritt aveva appena
fatto fiasco. Molti registi furono contattati: nessuno sembrava
interessato: Elia Kazan, Sergio Leone, Costa Gavras, Arthur Penn,
un'interminabile sequenza di “no, grazie”. Sam Peckinpah si
dichiarò disposto di accettare a patto di trasporre tutta la storia
in epoca western; il “no, grazie”, stavolta, arrivò dalla
Paramount stessa. Fu Robert Evans, all'epoca CEO della casa di
produzione, a decidere per Francis
Ford Coppola,
per motivi economici: costava poco (paradossi della Storia...)
Tipo
deciso, il signor FFC: il film si deve fare a New York e ambientato
nel 1946. La Paramount, ovviamente sperava di farlo a St.Louis (per
risparmiare sulle locations) e ambientarlo nel 1972 (per evitare di
farlo in costume). Ma non solo: FFC voleva Marlon
Brando
per il ruolo di Don Vito Corleone. La Paramount rifiutò
categoricamente; Coppola licenziò i membri della troupe che non
volevano Brando, e impose Al
Pacino
(all'epoca semi-sconosciuto) per interpretare Michael Corleone. La
produzione voleva nomi più blasonati: Jack Nicholson, Robert
Redford, Dustin Hoffman, e minacciò di licenziare Coppola.
Intervenne Brando: “se licenziate lui, me ne vado anche io”. Non
bastassero le pressioni interne, arrivarono le pressioni esterne:
Frank Sinatra
volle a tutti i costi che la sceneggiatura fosse cambiata per far sì
che il personaggio del cantante Johnny Fontaine, protetto della
famiglia Corleone, non fosse ricondotto a lui. La famiglia Colombo di
New York iniziò una campagna per boicottare il film, facendo appello
all'orgoglio italo-americano. Il boss e il produttore Albert Ruddy si
incontrarono e giunsero all'accordo: la parola “mafia” non
sarebbe mai stata pronunciata nel film.
Un
film dalla trama
molto semplice: Don Vito Corleone è il capo dell'omonima famiglia
mafiosa, ma è un uomo d'onore, da rispettare, con un alto senso
della famiglia e dei rapporti umani; non ama i business rischiosi,
non vuole che la famiglia esageri: delinquere sì, ma non troppo.
Forte del suo passato (che sarà raccontato nel sequel del film), ha
moltissimi agganci in politica e per questo un'amicizia con Corleone
equivale ad una vera garanzia. Eppure, intendiamoci, Don Vito è un
criminale, non si scampa: in passato uccise, e non esita a fare
uccidere, ma sempre con garbo, con ordine, precisione, pulizia. Gli
innocenti devono restarne fuori. Quasi un giustiziere, insomma, un
“pezz'e'novanta”, anche se non ama definirsi tale.
Ha
quattro figli: Sonny, il primogenito, è focoso e irascibile;
vorrebbe che la famiglia fosse più determinata, condivide gli ideali
del padre, ma non i metodi; è il primo erede, e la famiglia agirà
in modo molto diverso sotto la sua guida, quando sarà il momento.
Fredo, secondogenito, è debole e stupido: a lui non si può affidare
niente di importante, è un'anima fragile. Michael, terzogenito, è
completamente estraneo alla famiglia: è un eroe di guerra, un
decorato, e viene volontariamente tenuto fuori da tutti gli affari
loschi per mantenere rispettabile il cognome della famiglia. Connie,
ultima figlia, è l'oggetto di casa: “fai questo, fai quello”,
nella tipica mentalità italiana d'un tempo. Nella famiglia c'è
anche Tom Hagen, adottato dai Corleone quand'era bambino, e oggi
consigliori
privato di Don Vito, lo stratega della famiglia.
Succede
che un nuovo boss emergente, Virgil Sollozzo, offre a Don Vito la
possibilità di entrare nel giro della droga, in cambio della
protezione politica e di un milione di dollari in contanti. Don Vito
rifiuta, ma Sollozzo, che non accetta rifiuti ed è protetto dal
potentissimo boss Barrese, ha già un piano B: uccide il miglior
sicario dei Corleone, e poi prepara un attentato a Don Vito. Questi
sopravvive, ma in gravi condizioni. Sonny, focoso come sempre,
vorrebbe subito fare vendetta, ma la cosa scatenerebbe una guerra fra
i Corleone e le famiglie che appoggiano Sollozzo, soprattutto
Barrese. Bisogna fare le cose con calma: inaspettatamente è Michael
che, indignato dall'attentato al padre e dalla polizia che sta dalla
parte di Sollozzo, propone la vendetta e la esegue personalmente,
freddando Sollozzo e il capitano della polizia in un ristorante.
Mentre
a New York la guerra fra le famiglie mafiose impazza, Michael, per
evitare ritorsioni, si trasferisce in Sicilia, dove si sposa con la
giovane Apollonia e vive una vita serena; ma gli echi della guerra
mafiosa americana arrivano fin lì: qualcuno cerca di far fuori
Michael, e uccide invece la povera Apollonia.
Interviene
allora Don Vito, siglando un accordo di pace con tutti i grandi capi
delle famiglie mafiose per porre fine una volta per tutte alla
guerra. Le altre famiglie, però, Barrese in testa, desiderose di
eliminare del tutto i Corleone e prendersi tutti i suoi agganci
politici, uccidono Sonny grazie alla complicità del nuovo marito di
Connie, Carlo.
È
troppo per tutti, ora. Michael diventa quindi il capo della famiglia
e, dopo la morte per anzianità di Don Vito, insieme al fratellastro
Tom Hagen organizza la controvendetta: durante il battesimo del
figlio di Connie, Michael fa uccidere tutti i capi di tutte le
famiglie mafiose, Barrese incluso, e anche lo stesso marito di
Connie, traditore, e diventa il boss più potente di tutta l'America,
preparandosi a trasferire tutte le sue attività nel Nevada.
Da
anima candida a spietato boss mafioso: questa è la parabola di
Michael Corleone, il nuovo Padrino.
Il
film incassò oltre 144 milioni di dollari in tutto il mondo fra il
1972 e il 1973, di cui 86 milioni in patria. Fu una sorpresa totale
per la produzione, che mai si aspettava un simile esito. Eppure è
difficile trovare difetti
in questo vero capolavoro del cinema, vincitore (fra i numerosi
premi) di ben 3
Oscar
(miglior film, miglior sceneggiatura non originale e miglior attore a
Marlon Brando - che rifiutò per protesta contro i metodi di
Hollywood nei confronti dei nativi americani, mandando una squaw a
ritirarlo al posto suo),
5 Golden Globe
(film, regia, attore, sceneggiatura e colonna sonora) e 1
BAFTA
(colonna sonora).
La
sceneggiatura
è infatti un vero capolavoro di equilibri che ruotano intorno ai due
protagonisti, Vito e Michael: da un lato il declino di Vito, negli
ultimi mesi della sua guida, dall'altro l'ascesa di Michael,
un'ascesa che contemporaneamente rappresenta una discesa verso un
mondo deplorevole dal quale era sempre stato tenuto fuori (toccante
la scena in cui Vito confessa al figlio i suoi rimpianti: “non
volevo che toccasse a te”). Una sceneggiatura che rappresenta un
passaggio di consegne e offre un incredibile ritratto dell'America
post-bellica, in cui sul suolo non toccato dal conflitto in realtà
le tensioni sono altissime, le famiglie criminali si dividono i
profitti e le zone del territorio e la lealtà è basata solo sul
denaro.
I
personaggi della famiglia Corleone sono magistralmente interpretati
dal cast,
ognuno perfetto nel suo ruolo: Robert Duvall nei panni del pacato e
riflessivo Tom Hagen, James Caan come focoso Sonny, teso come un
fascio di nervi, Diane Keaton nei panni di Key, la fidanzata (e poi
moglie) di Michael, così debole da dar fastidio (ed è positivo!),
per non parlare dei due protagonisti, due mostri sacri come Pacino e
Brando, il primo meraviglioso nel suo percorso verso la crudeltà (e
si lamentò di essere stato accreditato solo come co-protagonista),
il secondo magistrale nell'inventare un personaggio molto più
vecchio di lui, più grasso e sofferente, con il famoso trucco del
cotone in bocca per sembrare ancora più autorevole. E tutti i
personaggi “di contorno” sono appropriatissimi e spietati: Luca
Brasi, Clemenza, Tessio, Carlo, Sollozzo, il poliziotto McCluskey.
Il
film riflette perfettamente la società italo-americana dell'epoca,
un club di soli
uomini
in cui armi e denaro determinano tutto: i ruoli femminili stanno a
lato, come matrone o puttane, donne di casa o donne da strada, non
c'è via di mezzo. E tutta l'ideologia
che sta dietro a questo mondo è così complessa e sfaccettata che
viene rappresentata indirettamente, attraverso dialoghi e
inquadrature. Merito anche di una sublime
fotografia
firmata Gordon Willis, scandalosamente dimenticata da tutti i premi
più importanti, con i neri molto carichi e i gialli spinti (il piano
sequenza in apertura è addirittura iconico). Inquadrature scandite
bene da un appropriato montaggio,
che lascia prevalere emozioni e sentimenti, grazie ad una regia
che non risparmia cruda violenza (teste di cavallo mozzate,
strangolamenti, sparatorie con gente crivellata, fiumi di sangue,
violenze domestiche, pestaggi) e che sfrutta il ritmo lento e calmo
per creare giusta tensione e momenti di riflessione.
La
colonna sonora
firmata Nino Rota è diventata un must, e chiunque riconosce
immediatamente quelle splendide note, e le può associare al logo del
film, il famoso pupo
siciliano
a indicare che tutti, alla fine, sono nelle mani di qualcun altro.
Un
capolavoro imperdibile,
questo film, che ad ogni visione successiva alla prima consente di
scoprire nuovi dettagli e sfumature, di soffermarsi sui molti livelli
interpretativi e di apprezzare ogni volta aspetti diversi, tecnici e
non. Pietra miliare del cinema, ha ispirato molti autori e affrontato
ardue prove per conquistarsi il suo spazio nell'Olimpo.
Meritatamente,
non c'è che dire.
Voto
finale: 9.5
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