martedì 14 luglio 2015

RGD: Predestination

Come spesso sostengo, non bisognerebbe mai guardare i film soltanto perché il trailer ha smosso la curiosità. I trailer sono macchine mortali, sono fatti per attirare il pubblico, per dare un'idea del film che poi puntualmente viene smentita. Sono uno strumento utile e allo stesso tempo terribile per promuovere una pellicola. Pur essendone conscio, ci casco ancora, qualche volta, ed è per questo motivo che ho optato per Predestination, scritto e diretto dai fratelli Michael e Peter Spierig e tratto da un racconto breve di Robert Heinlein intitolato Tutti i miei fantasmi.
Quando il trailer non corrisponde a ciò che si vede nella pellicola, il film può rivelarsi “migliore” o “peggiore” a seconda dei gusti e delle aspettative dello spettatore. In questo caso, o per meglio dire nel mio caso, sono rimasto piacevolmente incuriosito, anche se non completamente soddisfatto. E vi spiego perché.



Stando a quanto raccontato dal trailer, il film sembrava un action movie in cui si parlava di agenti temporali che fermano i crimini prima che vengano commessi (chiaro rimando a Minority Report), invece la trama è molto più quieta, più introspettiva sotto certi punti di vista, e le sfumature drammatiche della pellicola prendono spesso il sopravvento. Il viaggio nel tempo, però, non è elemento di secondo piano, anzi: seguire tutti i paradossi e gli spostamenti temporali non è sempre facile, anche se la regia aiuta lo spettatore a non perdersi.
Seguiamo quindi la storia di un agente temporale senza nome che utilizza i viaggi nel tempo (inventati, secondo il film, nel 1981) per fermare un terrorista soprannominato Fizzle Bomber prima che compia un terribile attentato a New York nel 1975, uccidendo undicimila persone. Cercando di fermare questo attentato, l'agente rimane sfigurato da un'esplosione e viene soccorso da un uomo di cui non vediamo il volto; l'agente ferito vola nel 1992 e si fa impiantare un nuovo volto (quello dell'attore Ethan Hawke), dopodiché ritorna indietro nel 1970 per ricominciare da capo la sua missione per tentare di fermare Fizzle Bomber entro i successivi 5 anni (ogni tentativo di fermarlo richiede 5 anni di preparazione).
Nel 1970, quindi, si fa assumere come barman in un locale di New York e una sera incontra John (Sarah Snook, abbastanza credibile come ragazzo), un giovane che dice di lavorare come autore di una rubrica di confessioni intime su una rivista per donne. John, inoltre, dice all'agente di avere una storia incredibile da raccontare, e la racconta in un lunghissimo flashback: John è nato Jane (sempre Sarah Snook, versione femminile), bambina abbandonata in un orfanotrofio, cresciuta poi sempre più maschiaccio e dotata di intelligenza e doti fisiche superiori; tenta l'ammissione al programma spaziale femminile su spinta del misterioso dottor Robertson e inizia a frequentare uno sconosciuto che però, dopo averla sedotta e messa incinta, la abbandona e sparisce per sempre. Dopo il parto, i medici rivelano a Jane che in realtà lei possiede un apparato riproduttivo doppio (maschile e femminile) e che quello femminile è stato asportato per consentire la nascita della bambina; sottoposta ad una serie di terapie ormonali, ecco che Jane diventa John; le sfortune non finiscono qui: la figlia neonata viene rapita da un uomo misterioso. John, disperato, inizia una serie di lavori fra cui quello di scrittore di confessioni intime, e il flashback si conclude.



Nella seconda parte del film, l'agente temporale dichiara di essere tale e di lavorare proprio per il dottor Robertson, e quindi propone a John di diventare a sua volta un agente temporale, promettendogli di potersi vendicare dell'uomo che l'ha sedotta e abbandonata quando ancora era Jane. 
John quindi accetta ed entrambi volano nel 1964, dove John accidentalmente incontra Jane e capisce di essere proprio lui l'uomo che l'ha sedotta e abbandonata (primo paradosso temporale); John, innamoratosi di se stesso in versione femminile, capisce che non può impedire che le cose avvengano e quindi mette incinta Jane; nel frattempo l'agente temporale vola nel 1965 e rapisce la figlia neonata, e con la neonata torna nel 1946 per abbandonarla nell'orfanotrofio. Capiamo quindi che Jane è stata sedotta dalla se stessa del futuro (John) e dai due è nata la Jane neonata, in un paradosso temporale assurdo in cui i due genitori e la neonata sono la stessa persona.
A questo punto, l'agente temporale torna a prendere John nel 1964 e lo porta nel 1981, facendolo diventare un agente temporale a sua volta. Per l'agente temporale protagonista è giunto ora il momento della pensione, per cui vola nel 1975, poco prima dell'attentato di Fizzle Bomber, per tentare un'ultima volta di fermarlo, ma scopre che Fizzle Bomber è in realtà se stesso. Fizzle Bomber gli spiega che “Fizzle Bomber” nascerà proprio perché l'agente temporale lo ucciderà in quell'incontro, diventando quindi cattivo (altro paradosso). L'agente temporale in effetti lo uccide e capisce che diventerà Fizzle Bomber, e si torna alla scena iniziale, quando vede se stesso sfigurato da una bomba e aiuta se stesso ad andare nel 1992 per farsi cambiare la faccia (era lui l'uomo misterioso, si era aiutato da solo). Finalmente, però, vediamo l'agente temporale sfigurato in volto dalla bomba: è John! Capiamo quindi che la neonata abbandonata, Jane, John, l'agente temporale protagonista e Fizzle Bomber sono tutti la stessa persona, frutto di un continuo ricircolo di paradossi temporali infiniti.




Il punto di forza del film è costituito senz'altro dalla prima parte, in cui la storia della vita di Jane/John è costruita con una discreta maestria, toccando, seppur non approfonditamente, molti temi (sessualità, abbandono, amore, problemi di comunicazione, introversione, senso di incomprensione, anomalie fisiche, discriminazioni sessuali – forse troppa carne al fuoco, era meglio concentrarsi su pochi argomenti in modo completo) e costruendo scene nel complesso funzionali e ben dirette; siamo aiutati anche da un'ottima Sarah Snook nel doppio ruolo maschile/femminile: l'attrice costruisce bene il suo personaggio e c'è qualche sequenza che effettivamente colpisce a livello emotivo (dopo l'operazione, quando Jane si sforza di parlare come un uomo, e quando finalmente si vede in versione maschile davanti allo specchio).
La sceneggiatura perde invece ogni buonsenso nella seconda parte, dove sì, i paradossi temporali sono ben seguiti e vanno a coprire con i giusti tempi e nella giusta sequenza tutti gli indizi misteriosi rimasti irrisolti nella prima parte, soddisfacendo le aspettative e la curiosità dello spettatore, ma a tratti il contenuto sembra incredibilmente forzato ed esagerato; penso, alla luce della visione, che il momento in cui lo spettatore è spinto a dire “basta, è troppo” è quando si scopre che Fizzle Bomber è l'agente temporale (scena inutilmente intricata, soprattutto nel dialogo, quella che li vede a confronto, e che non influisce sul fatto che l'agente temporale sia la versione “vecchia” di Jane/John, ottenendo l'unico risultato di complicare le idee allo spettatore; a mio avviso era meglio che Fizzle Bomber rimanesse una persona terza). 
Uno script che quindi è tanto denso di contenuti nella prima parte, quanto di paradossi e intrighi nella seconda, con la sensazione che si sia voluto inserire troppo contenuto, a tratti inutilmente morboso (giusto insistere sulla sessualità di John/Jane, ma perché attaccarsi a domande intime durante i colloqui per il programma spaziale?). E poi, possibile che succedano tutte a Jane? Sembra che le sfortune che la colpiscano siano soltanto un espediente per giustificare gli intrighi della seconda parte del film, e il tutto suona estremamente forzato.




La fotografia risponde colpo su colpo, adattandosi bene alle atmosfere calde e intime della prima parte, e a quelle fredde della seconda (e di alcune scene della storia di John/Jane); la regia dimostra di avere consapevolezza e di sapersi ben gestire nei vari generi (dalla fantascienza, al drammatico, all'action), anche se non si spinge in voli pindarici o idee geniali perché la narrazione è talmente complessa che qualsiasi inquadratura al di fuori dell'ordinario avrebbe compromesso la comprensione della storyline. Le colonne sonore non presentano temi memorabili, e sì che si sarebbero potuti trovare; scenografie e costumi costituiscono la parte migliore, riproducendo bene le varie epoche storiche, mentre invece il make-up, fondamentale in una storia come questa in cui tutti i personaggi, alla fine, sono uno solo, non sembra reggere la sfida. Il cast, tolta Sarah Snook, è piuttosto piatto (incluso il protagonista Ethan Hawke, che a tratti sembra imprigionato nella sua stessa faccia e si muove e parla in modo troppo diverso da John/Jane, il che rende ancora più forzato il fatto che in realtà siano la stessa persona); sembra buono il sonoro, ma l'attenzione su questi aspetti è distorta a causa della complessità narrativa, che non scade nel totalmente incomprensibile grazie al buon montaggio.



Difficile elaborare un giudizio complessivo: un film che va preso per quello che è. 
Non bisogna aspettarsi Minority Report come il trailer lasciava intendere, chi cerca un action movie, scoprirà che Predestination non fa per lui. Chi cerca un drammatico, sa che questo film è troppo complesso per esserlo pienamente. Gli “interstellariani” sfegatati che cercano fondamenti scientifici sui paradossi temporali faranno meglio a rinunciare: qualsiasi legge scientifica viene completamente irrisa, qui. 
È un buon passatempo per la serata, in cui la maggiore soddisfazione è data dal vedere le tessere del puzzle che si incastrano, abbassando tutti i criteri di giudizio e abbandonandosi alla storia. Innovativo nel suo essere estremo, con qualche pecca qua e là, ne risulta un film tutto sommato godibile, in cui bisogna allentare le maglie del giudizio e lasciarsi trasportare dalla vicenda paradossale, in cui tutto va dato per buono. Piacevole.  



Voto finale: 6.5

giovedì 9 luglio 2015

RGD: Contagious - Epidemia Mortale

Qualche giorno fa, svolgendo il mio lavoro da editore, leggevo un articolo su una rivista americana, articolo che conteneva un'intervista ad un grosso publisher, il quale suggeriva agli autori emergenti di smetterla di scrivere storie sugli zombie: “Tutto ciò che per voi è una novità, io l'ho già letto mille volte”. Non aveva torto: il mercato degli zombie è vasto, ma saturo, e non solo nei libri, basti pensare a “World War Z” o alla fortunatissima serie “The Walking Dead”. Contagious – Epidemia Mortale (titolo originale Maggie) vuole cercare di introdurre la novità (sempre che esista davvero, quindi) nel mondo degli zombie su grande schermo, concentrando tutta la storia non sulla parte apocalittica, ma sul rapporto intimo fra un padre e una figlia contagiata, e sul dramma del diventare zombie. L'intera produzione, però, avrebbe fatto meglio ad ascoltare il grande publisher americano e lasciar perdere.



È tutto sbagliato in questo film, a partire dalla trama raccontata nella sceneggiatura (pessima) di John Scott 3. Siamo in uno scenario post-apocalittico, in cui la grossa crisi è già finita e il mondo si avvia verso la ripresa di una vita normale: dalle notizie che si apprendono (tramite il trito e ritrito espediente del radiogiornale), i provvedimenti di quarantena, coprifuoco e legge marziale presi dall'esercito, i medicinali soppressori studiati dai medici e la prevenzione dei contadini che bruciano i loro campi per impedire il diffondersi del virus (che comunque non si capisce bene se si prenda per via aerea, per i morsi dei contagiati o per altre vie) hanno funzionato: il contagio del virus necroambulist è diminuito del 30% e si stima che nel giro di due o tre mesi non ci saranno più nuovi contagi. Il contadino Wade Vogel (Arnold Schwarzenegger) percorre campi e città in cerca di sua figlia Maggie, che è stata contagiata da un morso (non si saprà mai di chi, perché, dov'era quand'è successo, sappiamo solo che è successo perché lei una volta ogni tanto sogna il suo "morsicatore"); quando Wade la trova è in ospedale, pronta per essere spedita in quarantena. Conscio dei metodi terribili che usano in quarantena per sopprimere i contagiati (perché mai usarli, poi? Basterebbe sparare loro per eliminarli), Wade riesce a portare Maggie a casa grazie al suo amico medico che, contro qualsiasi protocollo, etica professionale e senso logico, la lascia uscire dall'ospedale.



A casa, Maggie inizia la lenta “trasformazione” in zombie, mentre per lo spettatore inizia l'interminabile supplizio di un'ora e mezza di scene senza senso, piazzate una in fila all'altra, che raccontano fatti inutili: Wade costretto a uccidere due vicini di casa zombizzati ma innocui, i poliziotti che vorrebbero a tutti i costi portare via Maggie, il medico che suggerisce a Wade di ucciderla con un fucile oppure con un cocktail dolorosissimo di farmaci (anche se il perché dovrebbe essere doloroso, poi, non si sa, soprattutto considerando che gli zombie non provano dolore, tant'è che Maggie si trancia un dito da sola), ma non solo: altre lunghe sequenze padre-figlia in cui i due rievocano futili ricordi del passato (ad esempio il rapporto fra Wade e il suo furgone), passeggiano nei campi, vedono un giardino di margherite creato anni prima dalla madre morta (era zombie pure lei? Non si sa), oppure altre scene prive di logica, come quella in cui Maggie esce con i suoi compagni di scuola (nonostante il coprifuoco), alcuni dei quali perfino contagiati (ma se sono così pericolosi, allora perché girano insieme alla gente, visto che da un momento all'altro potrebbero sbranarla? I contagiati non vengono mica spediti in quarantena? Una contraddizione dietro l'altra).
Maggie inizia a diventare pericolosa quando comincia a percepire l'odore degli esseri umani piacevole come il cibo, poi sbrana una volpe nel bosco, ma nonostante tutto Wade preferisce vederla agonizzare e diventare uno zombie anziché porre fine alle sue sofferenze con una pallottola. Quando, temendo per la propria vita, finalmente si prepara a spararle, è troppo tardi: Maggie si suicida gettandosi dal tetto della casa, ripensando a sua madre (che non si è mai vista prima, e di cui si è parlato due volte in tutto il film, la cui visione perciò non suscita alcuna emozione).



Siamo al di fuori di ogni possibile giudizio: raramente mi sono trovato di fronte ad un simile sfregio all'arte della sceneggiatura. Le regole di coerenza e coesione vanno a farsi benedire in ogni inquadratura. Personaggi pessimi, senza passato (nessun'idea su cosa sia il virus, sul perché sia arrivato, su cosa facevano tutti prima del virus), ma anche senza conflitto, non c'è un briciolo di emozione, forse anche perché per un ruolo che nelle intenzioni è così drammatico (un padre costretto ad uccidere la figlia) Arnold Schwarzenegger non è l'attore più adatto (ce la mette tutta, ma fa fatica perfino a piangere in modo credibile). Dato che il film l'ha prodotto lui (insieme ad altre sette case di produzione, cosa veramente inconcepibile visti i risultati), posso anche passarci sopra, ma il resto del cast è più che pessimo, non si salva proprio nessuno.
La regia abusa di inquadrature e di dettagli, una sequenza infinita di dettagli che non aggiungono nulla alla narrazione, ho contato fino a 25 inquadrature in una scena di 4 minuti senza dialoghi in cui non succedeva proprio niente (c'era Schwarzenegger che girava in una casa abbandonata). I ritmi sono lentissimi, si ha un avvenimento ogni 4-5 scene, e nonostante il buon montaggio (aiutato dalle infinite inquadrature), il buon make-up, i decenti effetti visivi, il discreto sonoro e la buona fotografia (desaturata e priva di contrasti), tutte cose comunque al minimo necessario per mantenere uno standard professionale, assistere allo sviluppo della pellicola è un vero supplizio, e la soporifera colonna sonora non aiuta.



Lento, incoerente, inconcludente, spreca una buona intuizione (spostare il dramma dall'apocalisse al conflitto emotivo) non scavando mai a fondo nella storia e nei personaggi.
Non c'è un messaggio (quale dovrebbe essere? Che un contagiato, in fondo, non perde mai completamente la sua umanità?), non c'è mai tensione, non c'è paura, non c'è dolore, non c'è identificazione, non c'è coerenza (dicono una cosa e ne fanno un'altra: la radio annuncia “non possiamo aprire le scuole” e gli amici di Maggie dicono “fra poco ci sarà la scuola, quindi non potremo più uscire la sera”; i contagiati sono pericolosamente letali, ma tutti si comportano come se nulla fosse, gli stessi contagiati non hanno mai paura di morire, accettano semplicemente la loro sorte), insomma non c'è un solo motivo per cui si dovrebbe rimanere in sala fino alla fine, se non forse il fatto di aver pagato il biglietto.



Con una netta revisione della sceneggiatura, avrebbe potuto essere un buon cortometraggio di 20 minuti. Invece ne esce un film a elettroencefalogramma piatto, uno zombie a sua volta. Bocciatissimo.


Voto finale: 4

venerdì 3 luglio 2015

RGD CLASSICS: Nuovo Cinema Paradiso (1988)

Per molti anni ho ritenuto che questo film fosse una specie di metafora della mia vita e che io fossi un po' Salvatore, destinato ad una vita di solitudine amorosa per coltivare la grande passione del cinema. Fortunatamente per me, le cose sono andate diversamente da un punto di vista affettivo, ma è pur vero che il cinema è un'amante vorace, che ti vuole tutto per sé.
Un po' quello che è successo a Giuseppe Tornatore, che ha deciso di raccontare largamente se stesso in Nuovo Cinema Paradiso, il suo più grande successo. Come ogni opera maestosa, anche NCP ha avuto bisogno di superare grandi ostacoli per poter entrare nell'Olimpo della settima arte.
In questo caso, i problemi sono stati principalmente di natura distributiva: per parola dello stesso Tornatore, il film nel 1988 andò malissimo al cinema, eccezion fatta per la città di Messina, dove il proprietario del cinema Aurora spinse il pubblico ad entrare gratis, invitandolo a pagare il biglietto solo se il film fosse stato gradito (paradossalmente, anni dopo, quel cinema Aurora ha fatto la fine del NCP: chiuso).




Tornatore, regista e sceneggiatore, e il suo produttore Franco Cristaldi, decisero per una drastica revisione della pellicola. Via tutte le parti che riguardavano l'amore romantico del protagonista e tutti i suoi dubbi amletici (secondo atto); lasciato invece ampio spazio alla sua infanzia e alla sua infatuazione perpetua con il cinema (primo e terzo atto). Il film venne quindi ridotto in maniera consistente (da 180 a 120 minuti) e, del tutto inaspettatamente, arrivò addirittura la nomination agli Oscar 1990, statuetta che la pellicola vinse come Miglior Film Straniero, premio che andò a fare compagnia al Golden Globe e a ben 5 BAFTA.
Inutile dirlo, dopo il premio americano la distribuzione in Italia della versione ridotta (per mano della Titanus) fu un trionfo assoluto. Fu allora che Tornatore ripropose la sua versione originale da 3 ore, per aumentare il proprio successo e riproporre la sua intenzione autoriale (e con buona ragione: è decisamente migliore!)



Ecco perché l'unica vera trama di Nuovo Cinema Paradiso che mi sento di raccontare e recensire è quella della versione estesa. Il film è diviso in tre atti molto marcati.
Nel primo atto, il regista Salvatore Di Vita (Jacques Perrin), rientrando nella sua casa di Roma, apprende dalla sua compagna, in una notte estiva con tanto di temporale, che è morto un certo Alfredo e che due giorni dopo ci sarà il funerale a Giancaldo, in Sicilia, paese natale di Salvatore. Questi intraprende quindi un lungo viaggio nei ricordi, risalendo addirittura all'epoca in cui era bambino (Salvatore Cascio, un vero portento). Siamo nell'immediato dopoguerra, l'Italia è allo stremo e ancor di più lo è la Sicilia: Giancaldo è un piccolo paesino che per Salvatore rappresenta il centro del mondo, soprattutto perché è uno dei pochi ad avere una sala cinematografica, il Cinema Paradiso, e il cinematografo è la passione più grande del piccolo Salvatore; Alfredo (Philippe Noiret, magistrale) è il proiezionista del cinema, nonché “padre sostituto” di Salvatore, dal momento che il vero papà è morto in guerra e la mamma è sempre sola con due figli piccoli. Il rapporto fra Alfredo e Salvatore è simpaticamente ricattatorio e conflittuale, ma in realtà si vogliono entrambi molto bene e Alfredo fa di tutto per coltivare la passione di Salvatore per il cinema. E così la vita in paese scorre tranquilla, fra aneddoti, figure caratteristiche, episodi divertenti, e soprattutto film proiettati al Paradiso. Ma poi le cose cambiano completamente quando, una sera, la pellicola prende fuoco e il cinema finisce in cenere; il piccolo Salvatore, eroicamente, si lancia dentro al cinema ed estrae lo svenuto Alfredo, giusto in tempo per salvargli la vita, ma non abbastanza velocemente da impedirgli di diventare cieco.



Nel secondo atto, passano gli anni e Salvatore diventa adolescente (Marco Leonardi, qui in uno dei suoi primi ruoli). Grazie agli investimenti privati di un napoletano arricchitosi col Totocalcio viene costruito il Nuovo Cinema Paradiso, ed è proprio Salvatore a sostituire il cieco Alfredo come proiezionista: sono cambiati i tempi e i costumi, l'Italia è ora molto più pruriginosa e disinibita, il cinema diventa luogo peccaminoso sia in sala che sullo schermo e anche Salvatore inizia le sue prime fughe sessuali e amorose: il ragazzo perde infine la testa per Elena, figlia di una famiglia del nord trasferitasi in Sicilia per lavoro. La loro relazione è osteggiata dai genitori di lei, e nel profondo del cuore anche da Alfredo, che vede nella ragazza un pericolo per Salvatore, che sta iniziando ad abbandonare i suoi sogni di fare il cinema, accecato dalla passione. Quando la famiglia di lei si trasferisce, Salvatore non riesce a salutarla prima di partire a sua volta per il servizio militare. Quando ritorna al paese dopo la naja, nulla è più come sembra: tutto ciò che ha costituito la sua gioventù non c'è più, molti anziani sono morti, i giovani sono andati tutti nelle grandi città; rimane soltanto il vecchio e cieco Alfredo, che gli ordina di partire per Roma, di intraprendere la carriera di regista e di non tornare mai più.
Nel terzo atto, finisce il flashback e Salvatore torna quindi al paese per il funerale di Alfredo. Siamo negli anni Novanta, tutto è cambiato: le automobili tappezzano le strade, il Nuovo Cinema Paradiso sta per essere demolito, distrutto dalla concorrenza di televisione e videocassette. Dopo il funerale, il giorno della demolizione del Cinema (una scena estremamente toccante) Salvatore vede una ragazza simile a Elena: scoprirà essere la figlia di lei, nel frattempo sposatasi con un suo ex compagno di classe. I due si incontreranno clandestinamente una notte e scopriranno che fu Alfredo a fare in modo di non farli più incontrare: in un coraggioso atto di vero amore paterno, ha preferito farsi odiare da Salvatore e separarlo con la forza da Elena, piuttosto che negargli la possibilità di realizzare il suo sogno di diventare regista. Come regalo, gli ha lasciato in eredità una pellicola contenente tutti i baci censurati nei più celebri film degli anni Quaranta e Cinquanta, che lui e Salvatore tagliavano insieme in un tempo che sembra così lontano.



Difficile non farsi catturare dai sentimenti in questa pellicola, che nonostante la durata fila via liscia e, anzi, quasi chiede di essere immediatamente visionata di nuovo al termine. Siamo di fronte alla cosiddetta sceneggiatura (quasi) perfetta: si piange, si ride, c'è azione, c'è tensione, c'è malinconia, speranza e sogno. 
Nella storia si parla di cinema, ma soprattutto di persone: il centro del film non è solo il rapporto fra Salvatore e il cinematografo (vero e proprio personaggio in carne e ossa), ma fra Salvatore e le figure che hanno caratterizzato la sua vita, in primis Alfredo, uomo burbero ma di buon cuore, che sacrifica tutto se stesso per Salvatore, nel quale vede non solo un bambino (e poi un ragazzo) senza altre guide, ma anche un riscatto per se stesso, per la vita che non ha mai potuto fare, vede in lui la gioia per la gioventù e per le nuove generazioni. Alfredo incarna il passato tanto quanto Salvatore incarna il futuro, e anche se Salvatore non vuole darlo a vedere, c'è sempre Alfredo dietro ogni azione che compie, dietro ogni scelta che prende. Ma anche la mamma di Salvatore (Pupella Maggio da anziana, Antonella Attili da giovane) è un personaggio fondamentale: da sempre vista come ostacolo e come legame col passato per Salvatore, è in realtà una figura fragile, rimasta sola con due bambini piccoli, che ha sempre dovuto badare a se stessa e che non si è mai opposta a questa relazione "extra-familiare" fra Alfredo e suo figlio, sapendo che in fondo Alfredo era la guida giusta per il bambino.



Meravigliosi tutti i personaggi di contorno, troppi perfino da ricordare (l'eccezionale Leopoldo Trieste nel ruolo del prete, Enzo Cannavale nel ruolo del napoletano Spaccafico, Leo Gullotta nella parte del ritardato assistente di Alfredo, ma anche la coppia che al cinema si ama, quello che conosce tutti i film a memoria, quello che dorme sempre nel cinema, il compagno di classe stupido che, con satira pungente da parte di Tornatore, finisce per fare il politico, fino ad arrivare al boss mafioso locale ucciso durante una proiezione), sono tutti inseriti in un primo atto che è un vero e proprio spaccato su un'epoca, su un mondo che oggi non esiste più, un mondo in cui il cinema e la vita quotidiana si intrecciavano (infinite le citazioni di film famosi che vengono mostrati nel primo atto, da I vitelloni a La terra trema, passando perfino dai cinegiornali dell'Istituto Luce – e c'è spazio anche per la televisione al cinema), un mondo fatto di piccoli aneddoti in un piccolo paese, in cui anche gli adulti andavano a fare gli esami di quinta elementare (scena esilarante), in cui ci si portava la sedia al cinema da casa, in cui il prete era la massima autorità morale e culturale, in cui con 50 lire si pagava un biglietto, in cui le macerie della guerra erano ancora ai lati delle strade, in cui i lavoratori emigravano in Germania e in cui il "pezzo di carta" rappresentava la differenza fra una vita dignitosa e una vita di stenti.
Un mondo che per Salvatore rappresenta l'intero mondo, ma che nel secondo atto inizia ad apparire piccolo, ristretto: un secondo atto che sembra meno coinvolgente, troppo incentrato sui drammi d'amore e sui patemi di un adolescente insicuro, che perde quella magia di ritratto del mondo (che è stato tagliato integralmente nella versione ridotta del film), ma che è espressione e passaggio necessario di quello stato d'animo transitorio di Salvatore, senza il quale il terzo atto perderebbe tutta la sua malinconia, il suo senso di qualcosa che era e che necessariamente non è più, senza il quale lo spettatore non riuscirebbe a percepire quel senso di “col senno di poi”, di "cosa sarebbe potuto essere", di "rimpianto per una strada che si sarebbe potuta percorrere" che Tornatore vuole trasmettere, un terzo atto che riconquista quel legame con il primo e conferma la teoria di Alfredo: "devono passare molti anni perché tu possa ritrovare la tua gente, il luogo in cui sei nato". 



Certo il cast aiuta molto (Noiret su tutti, ma anche il piccolo Salvatore Cascio, vero portento, un talento incredibile, una naturalezza che sconvolge – e si è perfino ridoppiato da solo!), ma la regia è sapiente, i ritmi del montaggio sono perfetti e ogni inquadratura è un quadro che volge al fine del racconto metacinematografico: lo schermo nello schermo. Le musiche di Morricone sono ben oltre l'emozionante, con un tema d'amore (composto da suo figlio) che ancora oggi dà i brividi e che spacca con una lacrima anche il più duro dei cuori di pietra nel finale, quando Salvatore osserva il mix di “baci cinematografici” che Alfredo gli ha regalato. 
Qualche pecca arriva per ingenuità, su stessa ammissione di Tornatore, da alcuni fuori fuoco e da un sonoro (di presa diretta e di post-produzione) talvolta davvero penalizzante. Ma la potenza emotiva e la carica filosofica, storica, artistica e spirituale del film è talmente elevata che ci si passa quasi sopra - forse siamo troppo abituati oggi allo splendore tecnico e alla confezione, ma non è sempre questo quello che conta.




In conclusione, un'opera meravigliosa in cui sono molte le frasi memorabili, ma su tutte ne voglio ricordare una, che è il vero messaggio del film, e che è l'ultimo lascito di Alfredo prima di separarsi per sempre da Salvatore e di non vederlo mai più, un messaggio che dalla prima volta che ho visto il film ho deciso di adottare come filosofia di vita, e che solo chi ha visto Nuovo Cinema Paradiso può comprendere fino in fondo: “Qualunque cosa farai, amala... come amavi la cabina del Paradiso quando eri piccolino”.



Voto finale 9.5

venerdì 26 giugno 2015

RGD: Birdman - o l'imprevedibile virtù dell'ignoranza

Mi sono preso il mio tempo per fare la recensione di questo film uscito a gennaio perché, essendo anche regista e sceneggiatore, quando lo vidi al cinema rimasi totalmente abbagliato dall'aspetto tecnico del film e non sarei stato obiettivo. Cento minuti di piano sequenza, dopotutto, stupiscono chiunque, figurati uno che sa quanto difficile è realizzarlo (anche se qui sono sedici, uno in sequenza all'altro in modo che sembrino un unicum). Di fatto, quindi, alla prima visione mi sono "perso" la storia, i personaggi, le sfumature.
Sono passati sei mesi, e mentre mi concentravo sul dimenticare tale prodigio, Birdman - o l'imprevedibile virtù dell'ignoranza ha vinto 4 Oscar (i più importanti: regia, sceneggiatura originale, fotografia e miglior film) con due incredibili secondi posti (attore protagonista e non-protagonista); uscito per l'home video, l'ho comprato e rivisto, questa volta concentrandomi sulla trama, sui personaggi, sulla recitazione. Rimane un film fantastico. Ma ecco in arrivo un'opinione abbastanza impopolare: m'era piaciuto di più prima.



Non che la trama sia brutta, anzi: il film parla di Riggan Thompson (Michael Keaton, superbo), un attore diventato famoso e miliardario agli inizi degli anni Novanta interpretando il supereroe Birdman in una grande trilogia hollywoodiana, e che in seguito ha sperperato tutto (soldi, carriera e vita personale). Riggan, ormai sulla cinquantina e sul viale del tramonto, vuole dimostrare al mondo (e soprattutto a se stesso) di non essere solo Birdman, ma di essere uno splendido attore drammatico e mette quindi in scena uno spettacolo a Broadway tratto da libro di Raymond Carver (l'autore che lo scoprì come attore anni prima) “Di cosa parliamo quando parliamo d'amore”.


Il problema è che Riggan è completamente sopraffatto dalle lotte interiori (sente nella sua testa la voce di Birdman che continua a umiliarlo e che cerca di convincerlo a tornare ai blockbuster dai soldi facili, e si convince di avere poteri paranormali), ma anche dalle lotte esteriori: i soldi vengono a mancare nonostante il suo migliore amico, avvocato e produttore Jake (Zach Galifianakis, magro e convincente) abbia dato fondo a ogni riserva, cosa che costringe Riggan a ipotecare la sua casa di Malibu. Inoltre, un riflettore cade in testa all'attore co-protagonista che minaccia di far causa al teatro. A conclusione del tormento di Riggan, sua figlia Sam (Emma Stone), ex tossicodipendente, gli fa da assistente, ma il loro rapporto è tormentato perché lui è sempre stato un padre assente (oltre che un marito assente e infedele, e infatti è divorziato); e perfino la storia d'amore fra Riggan e l'attrice Laura (Andrea Riseborough) sta andando alla rovina. Insomma, la vita di Riggan è un vero casino, e mancano 4 giorni alla premiére.
Come parziale soluzione a questo disastro, per sostituire l'attore infortunato viene rimediato Mike Shiner (Edward Norton, più che pazzesco), marito della protagonista dello spettacolo Leslie (Naomi Watts) con cui è in crisi piena, maniaco della verità sul palcoscenico, preciso all'inverosimile e dal carattere completamente ingestibile; Mike attira il pubblico di Broadway, non si può mandare via, ma Riggan teme che gli rubi la scena in questo spettacolo per cui ha dato tutto.
Le tre anteprime vanno un disastro, mentre la situazione degenera sempre di più e Riggan si trova a fronteggiare tutti i suoi conflitti personali (con Birdman), familiari, amorosi e professionali (la giornalista del Times, Tabitha Dickinson, è pronta a massacrarlo per dare l'esempio a tutti gli attorucoli di Hollywood che l'Arte è un'altra cosa).
Ma inaspettatamente, lo spettacolo diventa un successo quando Riggan, al colmo della disperazione, tenta il suicidio in scena. E questa è la svolta della sua vita: gloria e riconoscimenti artistici piombano in massa e finalmente Riggan può mettersi Birdman alle spalle.



C'è molto da raccontare in questa pellicola e la vera sfida del film è quella di farlo in piano sequenza: i sedici sequence shots sono affiancati uno all'altro in modo da sembrare uno solo e la telecamera continua a girare vorticosamente fra corridoi, sale teatrali, Times Square, teatri, bar, tetti, strade e platee, con una fluidità meravigliosa che fa riscoprire al pubblico la meraviglia che provarono i francesi nel 1895 davanti al treno dei Fratelli Lumiére: pura estasi. Impossibile non premiare il film come Miglior Film e Miglior Fotografia, è tutto semplicemente perfetto. La tecnica audio-video non ha una sbavatura, non c'è un errore, il ritmo è perfetto e non era affatto semplice scandire il passare dei giorni senza mai staccare la telecamera.
E questo è merito anche della sceneggiatura, che costruisce i personaggi in maniera perfetta attraverso dialoghi e situazioni sempre nuove, in modo tale che i personaggi si muovano in un flusso coordinato per cui prima io spettatore ne seguo uno, poi l'altro, ma nel frattempo il primo ha fatto qualcosa che io capisco che è successa senza che me lo si dica. Molti i monologhi, e forse in alcuni punti i personaggi tendono troppo a “spiegarsi”, ma non trascuriamo due elementi fondamentali del film che consentono di "passare sopra" a questo difetto: il primo è il meta-spettacolo, Birdman è una piéce teatrale raccontata al cinema, in cui lo spettacolo che Riggan mette in scena si confonde con la sua vera vita; il secondo è la regia sublime che consente, sempre senza staccare la macchina da presa, di passare agilmente da ciò che Riggan vive nella sua testa alla realtà dei fatti (la scena in cui Riggan finisce il suo volo fra i grattacieli e poi spunta il tassista che in realtà lo ha accompagnato è magistrale).
Ci sono poi alcuni espedienti meravigliosi: la colonna sonora, quasi esclusivamente suonata con la batteria, viene integrata nel film, dato che per due volte Riggan passa accanto al batterista che la suona. Geniale. Oppure memorabile è la manifestazione in carne e ossa di Birdman, con una momentanea trasformazione del film in un blockbuster hollywoodiano.



Perché allora dico che mi era piaciuto di più la prima volta? Perché sotto la patina di magnificenza c'è la sensazione che ci sia davvero troppa carne al fuoco, cosa che ha impedito di approfondire meglio alcuni personaggi (soprattutto la figlia Sam, l'avvocato Jake e l'attrice Laura); Naomi Watts stona nel cast ed è abbastanza fastidiosa nel ruolo di Leslie con il suo conflitto di essere attrice per la prima volta a Broadway che non valeva la pena inserire e che sfocia in un bacio lesbo con Laura del tutto gratuito e forzato.
Ma soprattutto, il dialogo fra Riggan e la critica Tabitha Dickinson al bar sembra quasi voler mettere le mani avanti al film stesso: se le critiche mi stroncano, a voi non costa niente farle, non rischiate nulla, ma per me invece questo film è tutto. È un peccato che tutto si riduca a questo, perché il rapporto con la critica nella sceneggiatura lascia trasparire soltanto puro astio verso una categoria, un astio che sa molto di personale (non solo di Riggan, ma del regista Inarritu stesso), mentre invece sarebbe stato meglio ampliare il discorso, come invece è stato fatto bene riguardo al tema della rivalità artistica, economica e culturale fra chi fa cinema e chi teatro, con tutte le spocchie e i luoghi comuni che la discussione atavica si porta dietro.



Qualche falla che comunque non impedisce a Bidman di essere il film dell'anno 2014, nonché un vero e proprio capolavoro di tecnica cinematografica. È uno di quei film che forse piace di più ai tecnici di settore che al pubblico comune, ma dato il tema trattato è giusto che sia così. I premi sono tutti meritati, anzi: i mancati Oscar ai due attori Keaton e Norton fanno quasi male (ma Keaton aveva vinto già il Golden Globe).
Se non altro, qualcosa di veramente nuovo nel panorama cinematografico. Ce n'era veramente bisogno.


Voto finale: 8.5
(9.5 la tecnica, 7.5 il resto)




martedì 23 giugno 2015

RGD: Jurassic World

Operazione molto rischiosa, quella di riprendere in mano la saga di Jurassic Park. Il primo capitolo ha fatto innamorare dei dinosauri milioni di persone nel mondo, ed è entrato nell'immaginario collettivo con parchi a tema, magliette, una vera e propria dinosauro-mania. Operazione rischiosa, quindi, perché è come trovarsi in una partita a poker a giocarsi l'all-in con in mano una coppia d'assi: la probabilità di vincere è sì molto alta (il pubblico accorrerà in massa), ma l'avversario potrebbe sempre avere un tris (rischio fallimento dietro l'angolo, dunque), senza contare che i due sequel già usciti (Il Mondo Perduto e Jurassic Park III) sono stati piuttosto deludenti, il terzo soprattutto.
Insomma, gli autori erano senz'altro consapevoli di avere fra le mani dinamite pura, eppure l'hanno maneggiata con cura, lasciando esplodere soltanto alcuni candelotti che generano danno inferiore rispetto al previsto: perciò, signore e signori, benvenuti al nuovo Jurassic World.



Ecco quindi che, secondo la trama, Isla Nublar (immaginaria isola al largo del Costa Rica) riapre i battenti 23 anni dopo la chiusura del fallimentare Jurassic Park; questa volta a metterci tutti i soldi è Simon Masrani, di origine indiana nonché ottavo uomo più ricco del mondo, che ha ricevuto l'eredità morale del parco direttamente da John Hammond prima della sua morte e intende portare avanti lo spettacolo, rendendolo ancora più maestoso e tecnologicamente avanzato; per fare questo richiama a lavorare il dottor Henry Wu (B.D. Wong, stesso attore del film originale) e gli commissiona di creare un nuovo dinosauro, un ibrido geneticamente modificato che sia spettacolare e orrorifico: nasce così l'Indominus Rex, la cui “ricetta” però è segreta. Ve n'è un solo esemplare in tutta l'isola ed è ancora rinchiuso nel recinto in cui è nato, in attesa di capire come poterlo controllare: pare infatti che nemmeno i creatori riescano a tenerlo a bada e che il suo istinto e la sua intelligenza siano inaspettatamente più sviluppati del previsto.
La direzione del parco a livello economico e turistico è invece data a Claire Dearing (Bryce Dallas Howard), donna precisa, meticolosa, ossessionata dal lavoro, dai numeri e dalle statistiche, la quale ignora completamente i due nipoti, il sedicenne Zach e l'undicenne Gray, figli di sua sorella; Zach vorrebbe solo starsene in giro a cuccare ragazze, mentre Gray, invasato di dinosauri, scalpita e si trascina il fratello per tutte le attrazioni: le due principali sono la grande vasca con l'enorme carnivoro Mosasauro, e l'altra è la Girosfera, capsule rotanti con cui i turisti possono scorrazzare liberi per tutta l'isola in mezzo ai tranquilli dinosauri erbivori.
A completare le premesse, facciamo la conoscenza di Owen Grady (Chris Pratt), un guardiano che, insieme all'amico Barry (Omar Sy, il nero di Quasi Amici), ha imparato a interagire con i velociraptor grazie ad un rapporto basato sulla fiducia reciproca: gli unici 4 velociraptor del parco, quindi, sono sotto la sua guida e sono (quasi) ammaestrati. Questa è una cosa che fa molto gola a Vic Hoskins, capo della InGen (stessa azienda del primo film) e responsabile della sicurezza dell'intero Jurassic World, il quale vorrebbe usare i velociraptor ammaestrati come armi da rivendere all'esercito per farci un sacco di soldi.



Claire chiama proprio Owen, sua ex fiamma, per controllare il recinto dell'Indominus Rex e assicurarsi che sia sicuro (Masrani non vuole assolutamente che si ripetano gli incidenti del Jurassic Park, motivo per cui anche il T-Rex è ben segregato). Succede però che l'Indominus Rex fugga dalla gabbia usando intelletto e abilità fisiche. Purtroppo nel suo DNA sono presenti geni di raganella e di camaleonte, che lo rendono capace di mimetizzarsi e di sfuggire ai sensori termici; ecco perché i soldati inviati da Hoskins per fermarlo vengono ammazzati tutti. L'Indominus sfugge quindi all'imboscata e punta dritto verso la zona turistica dell'isola, dove attacca proprio i due ragazzini Zach e Gray (che nel frattempo si erano attardati nonostante l'allarme), i quali riescono a sfuggirgli e trovano rifugio nelle strutture abbandonate del vecchio Jurassic Park. Owen e Claire si mettono quindi alla ricerca dei ragazzini e li raggiungono, sfuggendo a loro volta agli attacchi dell'Indominus.
Il proprietario Simon Masrani decide che è giunto il momento di abbattere l'Indominus e sale personalmente sull'elicottero insieme ad altri soldati per bombardarlo. Sfortunatamente, l'Indominus sfonda la voliera dove sono contenuti gli pterodattili, carnivori a loro volta, che vengono quindi liberati: essi abbattono l'elicottero uccidendo Masrani e poi si dirigono verso la zona turistica, iniziando a fare mattanza a tutto spiano fra i visitatori. Hoskins prende quindi il comando e obbliga Owen e il suo amico Barry a usare i loro Velociraptor ammaestrati per uccidere l'Indominus. Owen a malincuore accetta, ma quando i velociraptor trovano l'Indominus, si scopre che questo dentro di sé ha anche geni di velociraptor e quindi i raptor ora ubbidiscono a lui e non più a Owen, e si rivoltano contro gli uomini. 
Viene quindi ordinata una fuga generale dall'isola: non prima di scoprire che il dottor Wu e Hoskins avevano in progetto di creare altri dinosauri per l'esercito. Mentre Wu riesce a scappare con gli embrioni, Hoskins viene fatto fuori dai raptor.
L'Indominus è totalmente incontrollabile e ha ormai devastato il parco; per questo, mentre Owen riesce a riconquistarsi la fiducia dei velociraptor, Claire libera finalmente il T-rex del primo film che, lottando, riesce a spingere l'Indominus vicino alla grande vasca e a farlo mangiare dal Mosasauro.
Owen, Claire e i ragazzini, unici superstiti fra i personaggi principali, si dirigono verso un futuro non ben specificato, mentre nessuno sa che fine ha fatto il dottor Wu, scappato con gli embrioni (cosa che, naturalmente, apre ad un sequel).




Dopo una travagliatissima fase di pre-produzione, in cui Steven Spielberg (produttore) ha affidato la regia a Colin Trevorrow e la sceneggiatura a Rick Jaffa e Amanda Silver (coppia già autrice della nuova serie del Pianeta delle Scimmie), il film ha il suo miglior pregio nel ripescare dal passato: per i fan dell'originale Jurassic Park come me, non mancano i momenti emozionanti: la pellicola è piena di citazioni del primo episodio (il filamento di DNA, gli occhiali “pesanti quindi costosi”, la citazione “non abbiamo badato a spese”, la grande sala dove il T-Rex lottava con i raptor alla fine del primo film, le vecchie jeep, le magliette, l'attacco ai due ragazzini protetti solo da un vetro, lo stesso dottor Wu, il logo del vecchio parco che non viene quasi mai mostrato per intero), ma quando si tratta di costruire da zero la fantasia scarseggia e si limita ad innovare tecnologicamente il parco (ologrammi, pedane idrauliche, girosfera), del quale peraltro si avverte la mancanza di un tour guidato come avvenne invece nel primo film, quando Hammond scortò i suoi ospiti spiegando tutto. Nota positiva: il fatto che i velociraptor si facciano controllare da Owen (cosa molto criticata dopo l'uscita del trailer) è una novità studiata bene e non è inserita forzatamente nel film.




Meno bene invece i personaggi, innanzitutto troppi (era meglio un cast ristretto) e comunque piuttosto sciapi e privi di sfaccettature ed emozioni: Chris Pratt nel ruolo di Owen sembra ancora imprigionato in Starlord di Guardiani della Galassia, sempre macho e irriverente dal primo all'ultimo minuto, non un'esitazione, non un minimo di paura (il dottor Grant del primo film almeno ce l'aveva). Tutti hanno parlato tanto del fatto che Bryce Dallas Howard corre nella giungla per un'ora di film sempre indossando i tacchi, e devo dire che ho capito perché: questo è infatti il principale merito dell'attrice, monocorde come un elenco del telefono (spiacente Ron, tua figlia non sa recitare); i due ragazzini sono inspidi come il pane toscano, e soprattutto tra questi quattro personaggi non c'è un minimo di relazione coinvolgente (giusto due battute sul divorzio dei genitori dei ragazzini, ma niente di che) e soprattutto è fin troppo palese che saranno gli unici a salvarsi, perciò la tensione ne risente e si allenta quand'anche li vedi in pericolo. 
Gli altri personaggi? Bah: Masrani forse è quello che convince un pochino di più, per il resto c'è Wu, inspiegabilmente “malvagio” e Hoskins (Vincent D'Onofrio, sprecatissimo) che non ha sufficiente spessore per essere un vero villain (ad esempio come poteva essere il ciccione del primo film). Sarà anche che le scelte del cast non sono all'altezza (nell'originale c'erano Sam Neill, Laura Dern, Jeff Goldbulm, Richard Attenborough, Samuel L. Jackson, e scusate se è poco), ma c'è anche da dire che secondo me questo cast (esclusa la protagonista, irrecuperabile) avrebbe potuto fare di meglio con un'altra sceneggiatura sotto, più equilibrata con meno sottotrame.



Meglio, comunque, s'è dato più spazio ai dinosauri e in particolare alla computer graphic, che in film come questi è indispensabile e non delude, seppur ancora mostri parzialmente la sua artificiosità. Le nuove musiche, firmate Michael Giacchino (Lost), fanno quasi da contorno, anche perché la gente riconosce soltanto i vecchi temi di John Williams, che quando vengono sparati a mille nelle casse effettivamente danno ancora oggi i brividi. Regia e montaggio danno un ritmo vorticoso al film, che non è mai pesante, anche se risulta meno equilibrato dell'originale (troppe scene calme a inframmezzare le parti di alta tensione). Inoltre la pellicola ha il grandissimo merito di tenere nascosto lui, il T-Rex, fino agli ultimi dieci minuti, quando Claire tira fuori il fumogeno e si fa inseguire come fece Jeff Goldblum nel primo film... e il T-Rex assurge a eroe simbolo della saga e cancella l'Indominus Rex, che verrà presto dimenticato.
Trascuro fotografia e sonoro perché rispecchiano molto il primo film, anche se non perdòno alla nuova troupe di aver omesso la pioggia, che avrebbe aggiunto quella tensione extra che non avrebbe guastato, forse compensando le falle dei personaggi.



Comunque ne risulta un film divertente, si lascia guardare e, per i fan, il vero valore aggiunto è la nostalgia. Jurassic World è un enorme giocattolone con un finale un po' affrettato, ma che nel complesso fa passare in pieno entertainment una serata fra amici. Non memorabile, ma tutto sommato godibile. Il segreto, in questi casi, è abbassare le pretese e lasciarsi incantare.
E' riuscita la mossa da poker, allora? Diciamo piatto diviso, con buona pace di tutti.


Voto finale: 7
(6.5 per i non amanti del primo film)

mercoledì 17 giugno 2015

RGD CLASSICS: Il Padrino (1972)

Era il 1972 quando usciva nelle sale cinematografiche quello che nessuno si sarebbe aspettato come uno dei più grandi punti di riferimento della storia del cinema, nonché un film campione d'incassi: Il Padrino, firmato Francis Ford Coppola.
Genesi difficile, quella del Godfather, pellicola tratta dall'omonimo libro di Mario Puzo. 



La Paramount acquistò i diritti nel 1968, anche se molti all'interno della major erano contrari: La Fratellanza, film di ambientazione simile diretto da Martin Ritt aveva appena fatto fiasco. Molti registi furono contattati: nessuno sembrava interessato: Elia Kazan, Sergio Leone, Costa Gavras, Arthur Penn, un'interminabile sequenza di “no, grazie”. Sam Peckinpah si dichiarò disposto di accettare a patto di trasporre tutta la storia in epoca western; il “no, grazie”, stavolta, arrivò dalla Paramount stessa. Fu Robert Evans, all'epoca CEO della casa di produzione, a decidere per Francis Ford Coppola, per motivi economici: costava poco (paradossi della Storia...)
Tipo deciso, il signor FFC: il film si deve fare a New York e ambientato nel 1946. La Paramount, ovviamente sperava di farlo a St.Louis (per risparmiare sulle locations) e ambientarlo nel 1972 (per evitare di farlo in costume). Ma non solo: FFC voleva Marlon Brando per il ruolo di Don Vito Corleone. La Paramount rifiutò categoricamente; Coppola licenziò i membri della troupe che non volevano Brando, e impose Al Pacino (all'epoca semi-sconosciuto) per interpretare Michael Corleone. La produzione voleva nomi più blasonati: Jack Nicholson, Robert Redford, Dustin Hoffman, e minacciò di licenziare Coppola. Intervenne Brando: “se licenziate lui, me ne vado anche io”. Non bastassero le pressioni interne, arrivarono le pressioni esterne: Frank Sinatra volle a tutti i costi che la sceneggiatura fosse cambiata per far sì che il personaggio del cantante Johnny Fontaine, protetto della famiglia Corleone, non fosse ricondotto a lui. La famiglia Colombo di New York iniziò una campagna per boicottare il film, facendo appello all'orgoglio italo-americano. Il boss e il produttore Albert Ruddy si incontrarono e giunsero all'accordo: la parola “mafia” non sarebbe mai stata pronunciata nel film.



Un film dalla trama molto semplice: Don Vito Corleone è il capo dell'omonima famiglia mafiosa, ma è un uomo d'onore, da rispettare, con un alto senso della famiglia e dei rapporti umani; non ama i business rischiosi, non vuole che la famiglia esageri: delinquere sì, ma non troppo. Forte del suo passato (che sarà raccontato nel sequel del film), ha moltissimi agganci in politica e per questo un'amicizia con Corleone equivale ad una vera garanzia. Eppure, intendiamoci, Don Vito è un criminale, non si scampa: in passato uccise, e non esita a fare uccidere, ma sempre con garbo, con ordine, precisione, pulizia. Gli innocenti devono restarne fuori. Quasi un giustiziere, insomma, un “pezz'e'novanta”, anche se non ama definirsi tale.
Ha quattro figli: Sonny, il primogenito, è focoso e irascibile; vorrebbe che la famiglia fosse più determinata, condivide gli ideali del padre, ma non i metodi; è il primo erede, e la famiglia agirà in modo molto diverso sotto la sua guida, quando sarà il momento. Fredo, secondogenito, è debole e stupido: a lui non si può affidare niente di importante, è un'anima fragile. Michael, terzogenito, è completamente estraneo alla famiglia: è un eroe di guerra, un decorato, e viene volontariamente tenuto fuori da tutti gli affari loschi per mantenere rispettabile il cognome della famiglia. Connie, ultima figlia, è l'oggetto di casa: “fai questo, fai quello”, nella tipica mentalità italiana d'un tempo. Nella famiglia c'è anche Tom Hagen, adottato dai Corleone quand'era bambino, e oggi consigliori privato di Don Vito, lo stratega della famiglia.

Succede che un nuovo boss emergente, Virgil Sollozzo, offre a Don Vito la possibilità di entrare nel giro della droga, in cambio della protezione politica e di un milione di dollari in contanti. Don Vito rifiuta, ma Sollozzo, che non accetta rifiuti ed è protetto dal potentissimo boss Barrese, ha già un piano B: uccide il miglior sicario dei Corleone, e poi prepara un attentato a Don Vito. Questi sopravvive, ma in gravi condizioni. Sonny, focoso come sempre, vorrebbe subito fare vendetta, ma la cosa scatenerebbe una guerra fra i Corleone e le famiglie che appoggiano Sollozzo, soprattutto Barrese. Bisogna fare le cose con calma: inaspettatamente è Michael che, indignato dall'attentato al padre e dalla polizia che sta dalla parte di Sollozzo, propone la vendetta e la esegue personalmente, freddando Sollozzo e il capitano della polizia in un ristorante.


Mentre a New York la guerra fra le famiglie mafiose impazza, Michael, per evitare ritorsioni, si trasferisce in Sicilia, dove si sposa con la giovane Apollonia e vive una vita serena; ma gli echi della guerra mafiosa americana arrivano fin lì: qualcuno cerca di far fuori Michael, e uccide invece la povera Apollonia.
Interviene allora Don Vito, siglando un accordo di pace con tutti i grandi capi delle famiglie mafiose per porre fine una volta per tutte alla guerra. Le altre famiglie, però, Barrese in testa, desiderose di eliminare del tutto i Corleone e prendersi tutti i suoi agganci politici, uccidono Sonny grazie alla complicità del nuovo marito di Connie, Carlo.
È troppo per tutti, ora. Michael diventa quindi il capo della famiglia e, dopo la morte per anzianità di Don Vito, insieme al fratellastro Tom Hagen organizza la controvendetta: durante il battesimo del figlio di Connie, Michael fa uccidere tutti i capi di tutte le famiglie mafiose, Barrese incluso, e anche lo stesso marito di Connie, traditore, e diventa il boss più potente di tutta l'America, preparandosi a trasferire tutte le sue attività nel Nevada.
Da anima candida a spietato boss mafioso: questa è la parabola di Michael Corleone, il nuovo Padrino.



Il film incassò oltre 144 milioni di dollari in tutto il mondo fra il 1972 e il 1973, di cui 86 milioni in patria. Fu una sorpresa totale per la produzione, che mai si aspettava un simile esito. Eppure è difficile trovare difetti in questo vero capolavoro del cinema, vincitore (fra i numerosi premi) di ben 3 Oscar (miglior film, miglior sceneggiatura non originale e miglior attore a Marlon Brando - che rifiutò per protesta contro i metodi di Hollywood nei confronti dei nativi americani, mandando una squaw a ritirarlo al posto suo), 5 Golden Globe (film, regia, attore, sceneggiatura e colonna sonora) e 1 BAFTA (colonna sonora).
La sceneggiatura è infatti un vero capolavoro di equilibri che ruotano intorno ai due protagonisti, Vito e Michael: da un lato il declino di Vito, negli ultimi mesi della sua guida, dall'altro l'ascesa di Michael, un'ascesa che contemporaneamente rappresenta una discesa verso un mondo deplorevole dal quale era sempre stato tenuto fuori (toccante la scena in cui Vito confessa al figlio i suoi rimpianti: “non volevo che toccasse a te”). Una sceneggiatura che rappresenta un passaggio di consegne e offre un incredibile ritratto dell'America post-bellica, in cui sul suolo non toccato dal conflitto in realtà le tensioni sono altissime, le famiglie criminali si dividono i profitti e le zone del territorio e la lealtà è basata solo sul denaro.



I personaggi della famiglia Corleone sono magistralmente interpretati dal cast, ognuno perfetto nel suo ruolo: Robert Duvall nei panni del pacato e riflessivo Tom Hagen, James Caan come focoso Sonny, teso come un fascio di nervi, Diane Keaton nei panni di Key, la fidanzata (e poi moglie) di Michael, così debole da dar fastidio (ed è positivo!), per non parlare dei due protagonisti, due mostri sacri come Pacino e Brando, il primo meraviglioso nel suo percorso verso la crudeltà (e si lamentò di essere stato accreditato solo come co-protagonista), il secondo magistrale nell'inventare un personaggio molto più vecchio di lui, più grasso e sofferente, con il famoso trucco del cotone in bocca per sembrare ancora più autorevole. E tutti i personaggi “di contorno” sono appropriatissimi e spietati: Luca Brasi, Clemenza, Tessio, Carlo, Sollozzo, il poliziotto McCluskey.

Il film riflette perfettamente la società italo-americana dell'epoca, un club di soli uomini in cui armi e denaro determinano tutto: i ruoli femminili stanno a lato, come matrone o puttane, donne di casa o donne da strada, non c'è via di mezzo. E tutta l'ideologia che sta dietro a questo mondo è così complessa e sfaccettata che viene rappresentata indirettamente, attraverso dialoghi e inquadrature. Merito anche di una sublime fotografia firmata Gordon Willis, scandalosamente dimenticata da tutti i premi più importanti, con i neri molto carichi e i gialli spinti (il piano sequenza in apertura è addirittura iconico). Inquadrature scandite bene da un appropriato montaggio, che lascia prevalere emozioni e sentimenti, grazie ad una regia che non risparmia cruda violenza (teste di cavallo mozzate, strangolamenti, sparatorie con gente crivellata, fiumi di sangue, violenze domestiche, pestaggi) e che sfrutta il ritmo lento e calmo per creare giusta tensione e momenti di riflessione.
La colonna sonora firmata Nino Rota è diventata un must, e chiunque riconosce immediatamente quelle splendide note, e le può associare al logo del film, il famoso pupo siciliano a indicare che tutti, alla fine, sono nelle mani di qualcun altro.



Un capolavoro imperdibile, questo film, che ad ogni visione successiva alla prima consente di scoprire nuovi dettagli e sfumature, di soffermarsi sui molti livelli interpretativi e di apprezzare ogni volta aspetti diversi, tecnici e non. Pietra miliare del cinema, ha ispirato molti autori e affrontato ardue prove per conquistarsi il suo spazio nell'Olimpo.
Meritatamente, non c'è che dire.



Voto finale: 9.5